IL GLOSSARIO DEL MARKETER



Puoi trovare parole di cui non conosci il significato nel vasto mondo del digitale, quindi ho raccolto per chiunque volesse dare un'occhiata le più utilizzate e potrete leggerle direttamente da qui o richiedermi il file direttamente alla form del mio sito web.

Impression: Il numero di volte in cui le tue inserzioni sono state visualizzate sullo schermo.
Modalità di utilizzo:
Le impression sono una metrica comune usata dal settore del marketing online. Le impression misurano la frequenza con cui le tue inserzioni sono rimaste visibili sullo schermo per il pubblico di destinazione.
Le impression da determinati posizionamenti sono accreditate dal Media Rating Council (MRC).
Modalità di calcolo:
Un'impression viene calcolata in base al numero di volte in cui un'inserzione viene visualizzata su uno schermo per la prima volta. Esempio: se un'inserzione è visibile sullo schermo e una persona scorre verso il basso, quindi scorre di nuovo verso l'alto visualizzando nuovamente la stessa inserzione, l'impression sarà:
1. Se un'inserzione è visibile sullo schermo in due momenti diversi dello stesso giorno per una persona, le impression saranno
2. Questo metodo di calcolo delle impression dei video è diverso dagli standard del settore per le inserzioni video. Ad eccezione delle inserzioni su Audience Network, le impression sono calcolate nello stesso modo per le inserzioni che contengono immagini o video. Ciò significa che non è necessario iniziare a riprodurre un video perché venga calcolata l'impression.
In alcuni casi in cui non è possibile determinare se le inserzioni sono sullo schermo, ad esempio nei feature phone, le impression vengono conteggiate quando le inserzioni vengono mostrate sui dispositivi.
Le impression non vengono conteggiate se provenienti da traffico non valido rilevato, ad esempio da origini non umane (ad esempio, bot).


Copertura: Il numero di persone che hanno visualizzato le tue inserzioni almeno una volta. La copertura è diversa dalle impression, che possono comprendere più visualizzazioni delle tue inserzioni da parte delle stesse persone.
Questa metrica è una stima.
Modalità di utilizzo:
La copertura ti indica quante persone hanno visto il tuo messaggio durante una campagna pubblicitaria. Le persone potrebbero non cliccare sempre sulle tue inserzioni, ma potrebbero interagire con la tua azienda quando vedono il tuo messaggio.
La copertura può essere influenzata da offerta, budget e targetizzazione del pubblico.



KPI: COSA SONO E PERCHE’ SONO IMPORTANTISSIMI
Gli indicatori chiave di prestazione (Key Performance indicator, KPI) costituiscono una parte importante delle informazioni necessarie per determinare e spiegare come un’organizzazione progredisce verso i suoi obiettivi di business e marketing, tuttavia molte persone sono confuse su ciò che costituisce esattamente un indicatore chiave di prestazione o KPI.
KPI: definizione base
Un indicatore chiave di prestazione è una misura quantificabile che una società utilizza per determinare in quale misura gli obiettivi prefissati operativi e strategici vengono raggiunti.
Questo significa che diverse aziende hanno diversi KPI a seconda dei loro rispettivi criteri di performance o priorità. Allo stesso tempo, gli indicatori di solito seguono standard del settore.
C’è una sottile differenza tra gli indicatori chiave di prestazione e le metriche di marketing. Un punto importante da ricordare è che i KPI sono metriche di marketing, ma non tutte le metriche di marketing sono KPI. Un buon manager (ma anche un professionista o un piccolo imprenditore) deve saper determinare quali metriche di marketing si qualificano come loro indicatori di prestazione.
Tali indicatori non devono necessariamente essere di natura finanziaria, ma sono importanti nell’indirizzare veicoli di marketing per la gestione. Senza questi indicatori e senza le indicazioni che essi forniscono alle imprese, è quasi impossibile per loro raggiungere il loro pieno potenziale.
Caratteristiche dei KPI
I KPI possono essere stabiliti in modo anche arbitrario ma perchè siano utili è necessario che soddisfino i seguenti requisiti:
Quantificabilità: i KPI possono essere presentate sotto forma di numeri.
Praticità: si integrano bene con gli attuali processi aziendali.
Direzionalità: contribuiscono a determinare se una società sta migliorando.
Operatività: possono essere messi in relazione al contesto pratico per misurare un cambiamento effettivo.
Un indicatore chiave di prestazione deve essere basato su dati legittimi e fornire un contesto che richiama gli obiettivi di business. I KPI devono essere definiti in modo tale che i fattori al di fuori del controllo di una società non possano interferire con la loro realizzazione.
Un altro fattore chiave è che abbiano scadenze temporali predeterminate che dividano il processo analizzato in diversi check-point.
Esempi:
I KPI di un’organizzazione non corrispondono agli obiettivi specifici dell’organizzazione stessa.
Ad esempio, una scuola può avere l’obiettivo che tutti i suoi allievi superino un corso, ma utilizzare il suo tasso di fallimento come un indicatore KPI per determinare le proprie performance. D’altra parte, un’azienda può utilizzare la percentuale di reddito che riceve da clienti ricorrenti come suo KPI.
Altri esempi di KPI per le imprese includono:
Lo status dei clienti esistenti;
I nuovi clienti che hanno ottenuto;
Il tasso di abbandono dei clienti;
La segmentazione della clientela per redditività o demografia;
Il tempo di attesa per gli ordini dei clienti;
La lunghezza degli stock-out.
Come scegliere
Le imprese dovrebbero adottare una serie di passaggi prima di scegliere i migliori indicatori di prestazione, tra cui:
aver ben definito i processi di business;
aver definito i requisiti per i processi di business;
avere a disposizione misurazioni qualitative e quantitative dei risultati.
aver determinato le varianti e aver regolato i processi per soddisfare gli obiettivi a breve termine.
Al momento di scegliere i giusti indicatori chiave di prestazione, una società dovrebbe iniziare esaminando i fattori che il management utilizza nella gestione del business.
Poi è necessario considerare e stabilire se questi fattori aiutano a valutare il progresso della società contro le strategie indicate. Permettono anche a coloro che leggono i rapporti di fare valutazioni simili all’esterno?
Anche se gli standard del settore sono importanti, le aziende non devono necessariamente scegliere KPI simili a quelli dei loro colleghi di business. È più importante invece scoprire quanto gli indicatori siano rilevanti per l’azienda o la sua unità / divisione.
Non c’è un numero specifico di KPI di cui un’organizzazione ha bisogno.
In generale, il numero può essere compreso da quattro a dieci per molti tipi di aziende, e devono essere cruciali per il successo del business: niente è importante se tutto è importante. Le aziende dovrebbero anche rivedere i loro obiettivi e le loro strategie regolarmente e apportare le modifiche appropriate ai loro indicatori di prestazione.
Gli indicatori chiave di prestazione sono importanti per un business perché lo aiutano a concentrarsi su obiettivi comuni e garantire che tali obiettivi rimangano allineati all’interno dell’organizzazione. Questa attenzione aiuterà il business a rimanere sul compito e a lavorare su progetti significativi che aiuteranno a raggiungere gli obiettivi più velocemente.

CPA:
Cost Per Acquisition (CPA): è il costo unitario sostenuto dall’inserzionista per ogni conversione ottenuta attraverso un’iniziativa di marketing. Il cost per acquisition si ottiene dividendo il costo dell’azione pubblicitaria per il numero di conversioni generate dalla campagna.
Il cost per acquisition è un indicatore impiegato per valutare l’efficienza di un’azione pubblicitaria veicolata dai media tradizionali o, più di frequente, dai new media. Nel digital marketing, in particolare, il cost per acquisition è utilizzato per la pianificazione e l’acquisto di campagne di display advertising.
Più nel dettaglio, per le campagne di direct response i parametri monitorati più di frequente sono, oltre al cost per acquisition, il Cost Per Click (CPC), il Cost Per Lead (CPL), il Cost Per Action (CPA), ecc. Per le campagne di brand awareness, invece, i principali indicatori di costo sono il costo per contatto (CPC) o per migliaia di contatti (CPM, acronimo di Cost Per Mille; in inglese, più spesso definito CPT, ossia Cost Per Thousand), il costo per mille impression (CPM), il costo per GRP (CPG), ecc.
Nell’ambito del direct marketing, oltre al costo di acquisizione e al costo per contatto si possono prendere in considerazione anche altri indicatori di efficienza, quali il costo per ordine o il costo per risposta. I principali parametri impiegati per misurare l’efficacia delle iniziative di direct marketing, invece, sono – rispettivamente in termini di risposta cognitiva, affettiva e comportamentale – il tasso di risposta (redemption), il tasso di conversione (conversion), l’ordine (order) e la prova d’acquisto (trial).


CPC:
Cost Per Click (CPC): è il costo unitario sostenuto dall’inserzionista per ogni click generato da un’inserzione a pagamento. Si ottiene dividendo il costo dell’azione pubblicitaria per il numero di click generati dalla campagna.
Il cost per click è una diffusa modalità di pianificazione e acquisto della pubblicità online; questo modello di investimento pubblicitario è noto anche con il nome di Pay-Per-Click (PPC), che tipicamente si basa sul click-through. Presuppone, cioè, che l’utente non solo richieda, tramite il click sul banner o sul link sponsorizzato, il collegamento alla pagina web dell’inserzionista, ma anche che abbia effettivamente raggiunto il contenuto richiesto, generando una visita al sito. Il numero di click generati da una campagna, di norma, è certificato dall’ad server del publisher.
Il Cost Per Click, di norma, si applica alle campagne di search advertising, ma è molto utilizzato anche per quelle di display advertising. Più nel dettaglio, per le campagne di direct response i parametri monitorati più di frequente sono, oltre al cost per click, il Cost Per Acquisition (CPA), il Cost Per Lead (CPL), il Cost Per Action (CPA), ecc. Per le campagne di brand awareness, invece, i principali indicatori di costo sono il costo per contatto (CPC) o per migliaia di contatti (CPM, acronimo di Cost Per Mille; in inglese, più spesso definito CPT, ossia Cost Per Thousand), il costo per mille impression (CPM), il costo per GRP (CPG), ecc.

CPL:
Cost Per Lead (CPL): costo corrisposto dall’inserzionista per ogni lead generato attraverso una’iniziativa di marketing in un dato intervallo temporale.
Il concetto di lead presuppone che l’utente fornisca all’inserzionista indicazioni utili a generare vendite (vedi lead per maggiori informazioni).
Dal cost per lead deriva il Pay Per Lead o PPL, che costituisce una sempre più diffusa modalità di acquisto di campagne pubblicitarie online. Il cost per lead rientra in un modello di investimento pubblicitario che non si basa sull’esposizione, ossia sul numero di esposizioni (impression) veicolate, bensì sui risultati dell’esposizione e dunque sul numero di risposte generate dall’azione pubblicitaria.
Allo stesso modo, il Pay Per Click o PPC, che è la modalità di acquisto tipica dei motori di ricerca, in cui l’inserzionista paga solo quando l’utente clicca sul link sponsorizzato; l’acquisto di una campagna PPC avviene, in altri termini, sostenendo un costo unitario per click through (vedi Cost per click per approfondimenti).


LEAD E PROSPECT:
Lead: potenziale acquirente di un dato prodotto o servizio. Si genera un lead quando, attraverso un’iniziativa di marketing, un’impresa ottiene dall’utente informazioni utili a stabilire un contatto commerciale, da utilizzare in un secondo momento per generare un’opportunità di vendita. Nel web, ad esempio, l’utente che, in risposta a un annuncio pubblicitario, compila un form con i propri dati personali per essere contattato dall’inserzionista.
Differenza tra lead e prospect
Nel sales funnel, modello tradizionalmente usato per descrivere il comportamento d’acquisto del consumatore, lo status di lead segue quello di prospect. Più nel dettaglio:
– Il prospect è un utente che successivamente al primo contatto commerciale è stato considerato potenzialmente interessato alla proposta commerciale: l’utente ha espressamente manifestato interesse verso un dato prodotto o servizio, oppure viene identificato come potenziale acquirente della categoria di prodotto in base al profilo socio-demografico, psicografico o comportamentale.
– Il lead è un cliente potenziale che, oltre ad avere manifestato interesse per la proposta commerciale di una data impresa, ha fornito ad essa anche i propri dati di contatto (numero di telefono, indirizzo fisico o di posta elettronica, ecc.), incluso il consenso a ricevere comunicazioni di natura commerciale e altre informazioni che possono concretamente favorire l’impresa ad avviare una trattativa commerciale. L’impresa, ottenendo dall’utente il permesso di comunicare con lui (vedi permission marketing) e grazie alle informazioni da esso fornite, può dunque avviare una comunicazione diretta e personalizzata, finalizzata alla formulazione di un’offerta commerciale mirata.
Le campagne di lead generation
Si parla specificatamente di lead generation per indicare una serie di attività e tecniche volte all’acquisizione di contatti qualificati, cioè alla raccolta di nominativi e riferimenti di
contatto di individui o imprese potenzialmente interessate all’acquisto di determinati prodotti o servizi. A tal fine, ci si avvale sia di iniziative di direct marketing (direct mailing, cold calling, loyalty program, ecc.), che di campagne di digital marketing (search advertising, e-mail marketing, display advertising, social media marketing, ecc.), nell’intento di incoraggiare il numero più elevato possibile di utenti a profilarsi.
Da evidenziare, dunque, come il marketing abbia un ruolo fondamentale solo nella parte alta del funnel. La finalità delle campagne di lead generation è, infatti, quella di raccogliere informazioni che possono essere utilizzate in un secondo momento dalla forza vendita per accrescere le opportunità di vendita. In sostanza, tali campagne forniscono all’area vendite ulteriori contatti su cui concentrare i loro sforzi e quindi un valido supporto commerciale. È compito della forza vendita trasformare questi contatti qualificati in potenziali opportunità di vendita, assicurando un follow up capillare e tempestivo dei lead generati.
Per l’acquisto delle campagne di lead generation, volte cioè all’acquisizione di lead, solitamente si paga un costo unitario (Cost Per Lead o CPL) per ogni lead generato dalla campagna in un dato intervallo temporale. L’impresa inserzionista può acquisire lead rivolgendosi direttamente ai publisher, che generalmente si avvalgono di appositi spazi pubblicitari muniti di form per richiedere ai visitatori informazioni legate ai propri comportamenti di consumo o alle preferenze d’acquisto; oppure può acquistare dati da agenzie specializzate nel fornire nominativi, riferimenti di contatto (e altre informazioni utili ad orientare le attività di marketing) di persone e imprese potenzialmente interessate all’acquisto di prodotti o servizi proposti dalle imprese inserzioniste.
In sintesi, le altre due fasi chiave del processo di lead management
Nell’ambito del processo di acquisizione e gestione di lead, alla fase di lead generation seguono quelle di lead qualification e lead nurturing.
La lead qualification è il processo mediante il quale l’azienda classifica e seleziona i lead generati con le campagne di marketing, così da concentrare gli sforzi commerciali sui contatti ritenuti di maggiore interesse. Solitamente, viene assegnato a ciascun contatto un punteggio (score) e un livello (grade) per determinarne la qualità, a partire dal profilo ideale del cliente dell’impresa.
Il lead nurturing, invece, concerne le iniziative messe in atto dall’impresa dal momento dell’acquisizione di un lead fino a quello ritenuto più opportuno per avviare con esso una trattativa commerciale. In questa fase l’azienda “coltiva” i contatti più promettenti attraverso campagne di direct marketing che inducono l’utente a sviluppare ulteriormente lo scambio di informazioni con l’impresa. In genere, per gestire al meglio un lead e renderlo più “caldo” possibile, cioè per massimizzare le possibilità di trasformarlo in un cliente effettivo, si ricorre a sconti, offerte personalizzate al fine di incentivare l’acquisto dei prodotti o servizi nel breve termine. Sono detti hot lead, in particolare, gli utenti che manifestano un’elevata propensione all’acquisto, la quale viene misurata secondo criteri propri a ogni azienda.




CRO / CONVERSIONE:
Conversion: è quella specifica azione che compie l’utente in risposta agli stimoli trasmessi da un’iniziativa di direct marketing e che rappresenta l’obiettivo della campagna medesima.
La conversion esprime il completamento con successo di un processo (che prevede più iniziative di marketing) volto a indurre l’utente a compiere una determinata azione, ad esempio, l’acquisto di un prodotto, la sottoscrizione di una newsletter, il download di un documento, ecc.
Può esprimersi in termini assoluti o percentuali. Le conversions sono una misura del numero totale di operazioni (conversioni) effettuate con successo in un dato intervallo temporale; il tasso di conversione (conversion rate o CR) può essere definito in modo generico come la percentuale di visitatori unici che ha portato a termine con successo l’operazione promossa dalla campagna.
Il conversion rate è un indicatore di performance impiegato per valutare l’efficacia delle campagne di direct marketing. Il tasso di conversione, che può essere espresso attraverso formule diverse in funzione degli obiettivi della campagna, si caratterizza per il fatto di mettere in relazione le risposte ottenute dall’utente in tempi e fasi diverse del processo di direct marketing. Nel digital marketing, il conversion rate solitamente si esprime come rapporto tra il numero di conversioni effettuate e il numero di accessi al sito (o utenti unici o impression servite) in un certo periodo di tempo


REDEMPTION:
Redemption: nell’ambito del direct marketing, indica la percentuale di risposte ottenute in rapporto ai contatti attivati (tasso di risposta); quando espressa in valore assoluto, indica il numero totale di risposte pervenute su un’iniziativa di direct marketing in un determinato periodo di tempo.
Rientra tra gli indicatori di performance impiegati per valutare l’efficacia di una campagna di direct marketing. In particolare, i principali parametri utilizzati per misurare l’efficacia della campagna – rispettivamente in termini di risposta cognitiva, affettiva e comportamentale – sono il tasso di risposta (redemption), il tasso di conversione (conversion), l’ordine (order) e la prova d’acquisto (trial). I principali indicatori di efficienza del direct marketing sono, invece, il costo per contatto, il costo per risposta e il costo per ordine.

RETENTION:
Retension (Customer retention): l’insieme di attività messe in atto da un’impresa per trattenere i propri clienti nel tempo, ovvero per ridurne al minimo le defezioni. Nel significato più ampio e generale, indica il mantenimento di continue relazioni di scambio con i clienti nel lungo termine.
La customer retention si fonda sull’abilità dell’impresa di costruire relazioni di qualità con i clienti, in particolar modo quelli che generano maggiori profitti, nell’intento di mantenerli fedeli e profittevoli nel tempo. Nel perseguire tale obiettivo, l’impresa si avvale delle tecniche e degli strumenti del marketing e della promozione (e oggi più che mai dei canali digitali in ragione delle loro caratteristiche peculiari), che le consentono di stabilire e sostenere relazioni di tipo personalizzato e interattivo con i propri clienti.
Attraverso l’analisi delle transazioni e delle altre informazioni disponibili sulla clientela (elaborate con l’ausilio di sistemi di CRM), l’impresa può monitorare il grado di soddisfazione del cliente (customer satisfaction) e pianificare azioni dirette ad aumentarlo, così da favorirne la fidelizzazione: l’impresa può ricorrere, ad esempio, ad incentivi e sconti per indurre il cliente alla ripetizione dell’acquisto, o alla prova di nuovi prodotti. Per realizzare la piena potenzialità di profitti da ciascun cliente, inoltre, l’impresa può offrire prodotti o servizi aggiuntivi rispetto a quanto già acquistato al cliente (cross-selling), oppure proporre versioni qualitativamente superiori del prodotto o servizio inizialmente richiesto (up-selling).
La customer retention, più in generale, rappresenta un obiettivo di fondamentale importanza per l’impresa orientata al marketing (marketing oriented), che tende a perseguire il profitto attraverso il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori e la loro fidelizzazione. Tale orientamento si fonda sul presupposto che i clienti esistenti siano la chiave del successo di lungo periodo dell’impresa. Esso deriva sostanzialmente da un triplice ordine di considerazioni: il costo di acquisizione di nuovi clienti risulta, in genere, superiore a quello di mantenimento dei clienti attuali; un cliente soddisfatto è portato a riacquistare, diffonde un’immagine positiva dell’azienda, presta minore attenzione ai prodotti della concorrenza, è disponibile ad acquistare nuovi prodotti dell’azienda stessa; un cliente insoddisfatto, di contro, è portato a diffondere un’immagine negativa dell’azienda – e dei suoi prodotti in genere – in modo ancora più ampio di quanto non avvenga per la diffusione da parte di un cliente soddisfatto di un’immagine positiva.
Differenza tra retention e loyalty
Da evidenziare come i termini retention e loyalty, talvolta usati come sinonimi, presentino sfumature diverse: se la loyalty può essere intesa come un comportamento di riacquisto derivante dal soddisfacimento delle esigenze del cliente nel tempo, con il termine retention sembrerebbe più opportuno indicare, in modo più generico, il comportamento di chiunque riacquista dallo stesso fornitore.
Ciò non toglie che l’acquisto abituale di un prodotto o brand, solitamente, costituisce una buona base per l’istaurarsi di una relazione di fiducia, prima, e di fedeltà, poi, dal momento che il cliente ha avuto tutto il tempo e le informazioni necessarie per mettere in discussione la sua scelta comparandola con le alternative sul mercato. In alcuni casi, tuttavia, il riacquisto del prodotto o servizio potrebbe dipendere anche da un comportamento non voluto del cliente, ovvero dovuto alla mancanza di alternative, come nei casi di monopolio, oppure agli alti costi di cambiamento.
Il customer retention rate (CRR) come indicatore di loyalty
Il customer retention rate (CRR) è tra gli indicatori più frequentemente utilizzati nell’analisi della fedeltà della clientela, dal momento che fornisce una chiara visione del portafoglio clienti o, più di frequente, di una parte di esso (tipicamente, i clienti che generano i maggiori profitti), relativamente a uno specifico periodo. Il customer retention rate esprime, infatti, la percentuale di clienti che continua ad acquistare in un determinato intervallo di tempo.
Più nel dettaglio, prendendo a riferimento un dato arco temporale, il customer retention rate (CRR) è determinato dal rapporto percentuale tra il numero dei clienti presenti in portafoglio alla fine del periodo esaminato, al netto dei clienti acquisiti durante tale periodo, e il numero dei clienti presenti in portafoglio all’inizio del periodo medesimo.
Per poter valutare anche il valore dei clienti rimasti fedeli all’impresa nel periodo oggetto di studio, si ricorre, di frequente, al customer retention rate ponderato che prende in considerazione oltre al numero di clienti anche il volume di spesa da essi generato nel tempo.


CORPORATE REPUTATION:
Corporate reputation: considerazione di cui gode un’organizzazione in virtù della sua capacità di soddisfare le aspettative degli stakeholder nel tempo. Esprime il giudizio sull’azienda da parte dei suoi pubblici di riferimento, confermato dalle esperienze dirette degli stakeholder e dalle azioni e dai risultati ottenuti nel passato dall’organizzazione.
La corporate reputation può infatti essere concepita come la sintesi di un vasto insieme di segnali che l’impresa trasmette agli stakeholder nel corso del tempo con riferimento al suo agire strategico (Nelli, 2012). Gli interlocutori dell’impresa recepiscono e interpretano questi segnali, presumendone razionalmente il comportamento futuro; maturano conseguentemente le proprie aspettative e giungono infine a formulare le proprie decisioni. La coerenza dei comportamenti dell’impresa con i segnali che ha inviato nel tempo e la conseguente risposta alle attese formulate dai suoi stakeholder determinano la formazione della reputazione aziendale.


STAKEHOLDER:
Stakeholder: individui o gruppi che hanno un interesse legittimo nei confronti dell’impresa e delle sue attività, passate, presenti e future, e il cui contributo (volontario o involontario) è essenziale al suo successo (D’Orazio, 2004).
Si suddividono in stakeholder interni ed esterni all’organizzazione. Nella prima categoria rientrano azionisti, manager e dipendenti dell’azienda; fanno invece parte della seconda categoria i clienti e i fornitori, i governi e le istituzioni, le associazioni imprenditoriali, i sindacati e altri attori sociali che operano nelle comunità locali.
Clarkson (1995) – secondo cui sono stakeholder tutte le persone e organizzazioni che hanno, o si aspettano, proprietà, diritti o interessi nei confronti di una impresa e delle sue attività – distingue fra:
– Stakeholder primari, o stakeholder in senso stretto, ossia tutti coloro che hanno proprietà, diritti, interessi o aspettative nell’attività di un’azienda e senza il cui sostegno l’organizzazione cesserebbe di esistere: gli investitori e gli azionisti, i dipendenti, i clienti, i fornitori, ma anche i governi e le istituzioni che forniscono le infrastrutture, i mercati, le leggi e i regolamenti.
– Stakeholder secondari, o stakeholder in senso ampio, cioè persone e organizzazioni che non sono essenziali per la sopravvivenza dell’azienda, ma che possono comunque influenzare o essere influenzati in qualche aspetto dei prodotti, delle operazioni, dei mercati, del settore e dei risultati di un’impresa; si pensi, ad esempio, all’influenza esercitata da taluni gruppi di pressione che con la loro attività sono in grado di sensibilizzare e orientare l’opinione pubblica rispetto all’operato delle imprese.
Il termine stakeholder richiama (e per certi versi si contrappone idealmente con) quello di stockholder. Se con quest’ultimo si intende il detentore di titoli rappresentativi del capitale di rischio dell’impresa, con il termine stakeholder si indica colui che ha una qualche “posta in gioco” (stake) nel processo decisionale dell’organizzazione medesima. Il termine si afferma di pari passo con una teoria aziendale, la cosiddetta stakeholder theory o teoria degli stakeholder, una strategia manageriale che pone le basi per il superamento dei paradigmi teorici allora vigenti e, in particolare, quello della cosiddetta stockholder theory.
Il management delle relazioni con gli stakeholder
La stockholder theory, che si sviluppò negli Stati Uniti a partire dagli anni Cinquanta in un contesto di crescita economica e di fiducia verso le grandi corporations, può essere sintetizzata attraverso il contributo del suo più autorevole sostenitore: “vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa, e cioè quella di impiegare le proprie risorse nello sviluppo di attività finalizzate ad accrescere i profitti, ovviamente nel rispetto delle regole del gioco, vale a dire in un mercato aperto, corretto e competitivo.” (Friedman, 1963). Per la teoria degli stockholder sistematizzata da Friedman, dunque, il management è moralmente responsabile del proprio operato solo nei confronti degli azionisti.
La stakeholder theory o teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholder riesce, invece, a combinare valori etici ed economici nel profilo finalistico dell’impresa. Le decisioni rilevanti nella gestione delle aziende devono essere orientate alla creazione di valore per gli azionisti (massimizzazione del profitto), per i dipendenti, i clienti e i fornitori (vantaggi economici e non) e per la società in cui opera (attraverso la ricerca di benefici sociali e ambientali diretti tanto agli stakeholder interni quanto al territorio di riferimento in generale).
Il management deve, pertanto, assumersi la propria responsabilità anche nei confronti delle persone e dei gruppi verso i quali le proprie azioni possono generare effetti o che possono a loro volta influenzare tali azioni. L’impresa viene vista come “un insieme complesso di relazioni tra gruppi di interesse con obiettivi diversi, ognuno dei quali contribuisce alla sua performance e si aspetta benefici (o almeno di non essere danneggiato senza indennizzo) come risultato dell’attività aziendale.” (D’Orazio, 2004). In quest’ottica, “il management ha il compito di mappare e governare questo sistema di relazioni al fine di creare e distribuire valore” (Freeman, 2010).
Questo orientamento di management, denominato stakeholder-oriented approach, presuppone un processo sistematico di dialogo e di coinvolgimento dei principali interlocutori sociali dell’organizzazione nella formulazione delle politiche o strategie aziendali. Spetta allo stakeholder marketing alimentare questo processo per favorire lo sviluppo di un rapporto di favore e di reciproca comprensione tra l’organizzazione e i suoi principali stakeholder. Perseguono finalità di stakeholder engagement tutte quelle organizzazioni che prendono in considerazione i diversi punti di vista degli stakeholder tanto nella propria attività operativa quanto nella pianificazione strategica.
Il processo manageriale secondo lo stakeholder approach, più nel dettaglio, muove da un’attività ricognitiva per poi definire le strategie più opportune di governo delle relazioni. Per l’identificazione e la segmentazione degli stakeholder dell’impresa ci si avvale spesso di una mappa percettiva, detta stakeholder analysis. Sulla base di quest’ultima è possibile isolare il contributo che ogni singolo stakeholder può portare per migliorare la situazione di contesto in cui opera l’impresa e valutarlo rispetto a una specifica politica, attività o iniziativa dell’impresa.


CORPORATE IDENTITY E IMAGE:
Corporate identity: risultante di una serie di elementi tangibili e intangibili che caratterizzano l’azienda e portano alla sua riconoscibilità sul mercato, definendone il ruolo in relazione ai bisogni che vuole soddisfare e ai valori o modelli di comportamento che intende promuovere.
L’identità aziendale può essere concepita in una duplice prospettiva: da un punto di vista concettuale, come una presentazione strategicamente pianificata dall’azienda per relazionarsi con i suoi principali stakeholder, facendo in modo di generare effetti positivi in termini di immagine e fiducia nell’organizzazione; oppure da un punto di vista più operativo, inerente alle modalità attraverso cui l’impresa presenta sé stessa al proprio pubblico e, in tal caso, può essere intesa come l’insieme degli elementi osservabili dell’identità di un’impresa che si manifestano tanto nella presentazione visiva di sé stessa (e che comprendono nome, logo, colori, slogan, ecc.) quanto nel suo comportamento pubblico.
Corporate identity e corporate image
Il concetto di identità, pur essendo strettamente connesso a quello di immagine, se ne distingue per la dimensione storica che lo caratterizza: esso si fonda sui comportamenti e sulle azioni compiute dall’organizzazione nel corso del tempo e, dunque, implica che vi sia coerenza fra la percezione identitaria che l’organizzazione ha e costruisce intorno a sé e i comportamenti che questa mette in atto; alle iniziative di comunicazione, volte a trasmettere agli interlocutori l’immagine che l’organizzazione vuole dare di sé, devono dunque corrispondere comportamenti che avvalorino e diano sostanza all’immagine promossa.
Sarebbe parziale e riduttivo ritenere la corporate identity una mera “dichiarazione visiva di chi e cosa è l’impresa e di come vede sé stessa nei confronti del mondo” (Selam, 1975), dal momento che, come è stato evidenziato da studi più recenti, l’identità d’impresa si manifesta attraverso multiformi canali e strumenti di comunicazione che comprendono la performance dell’organizzazione e dei suoi prodotti, le comunicazioni e il comportamento dei dipendenti, la comunicazione controllata e il dialogo con gli stakeholder (Balmer, 2001). Nel modello di analisi proposto da Balmer e Soenen (1999), in particolare, la corporate identity risulta costituita da tre diverse dimensioni: l’anima, sintesi dei valori guida, della cultura organizzativa e della storia dell’azienda; la mente, espressione delle decisioni volontariamente prese dall’organizzazione in virtù della sua visione, filosofia, strategia o in base ad altri fattori come le performance dei prodotti e dell’impresa nel suo complesso, l’identità del settore di appartenenza, l’architettura del brand, lo stile della
leadership; la voce, sintesi di tutte le manifestazioni comunicative, volontarie e non, dell’organizzazione.



BRAND IDENTITY:
La brand identity può essere intesa sia come l’insieme degli elementi di riconoscimento del brand (nome, simboli, logo, slogan, jingle, ecc.) che agevolano il consumatore nell’identificazione distintiva di un’alternativa di offerta, sia come il complesso dei valori imprenditoriali che contraddistingue un brand fin dalla nascita e che ne determina l’evoluzione futura; la brand identity, infatti, riflette l’orientamento e gli obiettivi dell’azienda, oltre che la personalità e i valori della marca.
Modelli di analisi della struttura della brand identity
La brand identity è stata definita come una combinazione unica di associazioni che l’azienda ambisce a costruire e a mantenere nel tempo. Queste associazioni supportano la marca e rappresentano la promessa che l’azienda si impegna a mantenere nei confronti dei consumatori (Aaker, 1996). Secondo l’autore, le associazioni di marca possono essere classificate secondo quattro prospettive:
– La marca come prodotto. Le associazioni comprese in questa dimensione della brand identity riflettono le percezioni riferite al prodotto frutto dello svolgimento dell’attività caratteristica d’impresa: le caratteristiche e gli attributi del prodotto, la composizione del portafoglio prodotti dell’impresa, il rapporto qualità/valore, le principali modalità e occasioni d’uso, le caratteristiche del target group, il luogo di produzione.
– La marca come organizzazione. Tale dimensione della brand identity comprende le associazioni che riflettono le percezioni riferite all’organizzazione, come i valori e gli orientamenti di fondo legati alla storia e alla cultura dell’organizzazione. Da tale prospettiva, si prende in considerazione la filosofia gestionale alla base della strategia imprenditoriale, le connotazioni istituzionali derivanti dai valori, dalla storia e dalla cultura del personale, la tipologia di legame con il territorio e con la comunità di riferimento.
– La marca come persona. Questa dimensione dell’identità caratterizza la marca attraverso gli attributi di personalità, ossia un insieme di caratteristiche e di associazioni aventi connotazioni simili a quelle del carattere umano. Comprende, pertanto, tutti gli elementi riferibili a tratti di personalità (brand personality) riconosciuti alla marca e a caratteristiche relazionali emerse nella gestione del rapporto con i clienti.
– La marca come simbolo. Questa dimensione del sistema dell’identità di marca riflette la sua identità visiva (visual identity), ossia un insieme coordinato di simboli e codici di comunicazione che devono essere presenti in tutte le forme di interazione con il consumatore e che rendono la marca molto più riconoscibile e semplice da ricordare. Il valore simbolico del brand, inoltre, deriva anche dalla longevità e dalla storia dell’impresa; rientrano in tale dimensione, pertanto, anche tutti gli elementi riferibili all’eredità della marca (brand heritage).
Nel modello di analisi proposto più di recente da Aaker e Joachimsthaler (2000), la brand identity viene descritta attraverso tre cerchi concentrici:
– L’ essenza di marca (brand essence), che rappresenta il cerchio più interno della brand identity, esprime la promessa di fondo fatta ai consumatori. Riflette ciò che la marca vuole rappresentare per il mercato e che dovrebbe ispirare in modo coerente e stabile nel tempo ogni sua manifestazione espressiva (Arnold, 1992);
– L’ identità centrale (core identity) è costituita dalle connotazioni di marca più significative. Quest’ultime riflettono la mission e la strategia di mercato dell’impresa e sono destinate a restare immutate anche se la marca si estende in nuovi mercati o attraverso nuovi prodotti;
– L’ identità allargata (extended identity) comprende quegli attributi aggiuntivi che pur non rientrando nel nucleo centrale dell’identità di marca contribuiscono a specificarne il significato. Generalmente, tali elementi possono mutare nel tempo e sono estendibili solo a determinati prodotti e non a tutta la gamma di prodotti venduti attraverso il brand.
Brand identity e brand image
Il concetto di identità deve essere distinto da quello di immagine ad esso legato. Se il primo appartiene all’area dell’emissione, dal momento che riflette la volontà degli strateghi di come far percepire la marca all’esterno (Aaker, 1997), il secondo rientra in quella della ricezione, perché pone l’accento su come un target di consumatori percepisce il brand (Kapferer, 2004). In altri termini, la brand identity esprime l’immagine che l’azienda vuole dare di sé e dei propri prodotti ai consumatori e ai vari stakeholder di riferimento, cioè l’immagine desiderata e, dunque, rappresenta il messaggio dal versante dell’emittente; l’immagine di marca, invece, è il riflesso dell’identità di marca presso il pubblico e, pertanto, rappresenta il messaggio dal versante del ricevente.


CRM:
CRM (Customer Relationship Management): strategia di business che si avvale dell’impiego delle nuove tecnologie sia per comprendere e anticipare bisogni e desideri dei clienti dell’impresa sia per individuare consumatori potenzialmente interessati all’acquisto dei prodotti o servizi offerti dall’impresa medesima.
Il CRM è la traduzione operativa del concetto di marketing relazionale, approccio al marketing orientato a costruire relazioni a lungo termine con i clienti (anche noto come customer oriented o marketing oriented). Secondo tale orientamento l’impresa tende a perseguire il profitto attraverso il soddisfacimento dei bisogni dei consumatori e la loro fidelizzazione. Analogamente, anche il CRM persegue le medesime finalità. Esso, infatti, si pone come obiettivo prioritario quello di gestire il consumatore attraverso un’offerta di prodotti e servizi personalizzata che ne aumenti il livello di soddisfazione (customer satisfaction) e, conseguentemente, di fedeltà (customer loyalty).
Secondo una nota definizione Il CRM può, infatti, essere inteso come un “un processo integrato e strutturato per la gestione della relazione con la clientela, il cui scopo è la costruzione di relazioni personalizzate di lungo periodo capaci di aumentare la soddisfazione dei clienti e, conseguentemente, di aumentare il valore per il cliente e per l’impresa” (Greenberg, 2000).
Da tale definizione emerge come tale processo sia finalizzato a sviluppare e sostenere i rapporti con i clienti esistenti, più che ad acquisirne di nuovi. Più in generale, il profitto dell’impresa può derivare dall’acquisizione di nuovi clienti, dall’incremento di redditività dei clienti esistenti e da un aumento della durata delle relazioni con gli stessi. Il CRM si fonda sul presupposto che i clienti esistenti siano la chiave del successo di lungo periodo dell’impresa e quindi si pone come obiettivo prioritario la fidelizzazione della clientela. Tale orientamento deriva sostanzialmente da un triplice ordine di considerazioni: il costo di acquisizione di nuovi clienti risulta, in genere, superiore a quello di mantenimento dei clienti attuali; un cliente soddisfatto è portato a riacquistare, diffonde un’immagine positiva dell’azienda, presta minore attenzione ai prodotti della concorrenza, è disponibile ad acquistare nuovi prodotti dell’azienda stessa; un cliente insoddisfatto, di contro, è portato a diffondere un’immagine negativa dell’azienda – e dei suoi prodotti in genere – in modo ancora più ampio di quanto non avvenga per la diffusione da parte di un cliente soddisfatto di un’immagine positiva.
Il processo di CRM
Il CRM si avvale del contributo delle tecnologie informatiche per gestire le relazioni con i clienti in base all’analisi delle informazioni che li riguardano. Esso, infatti, si basa su sofisticati sistemi di gestione tecnologici finalizzati alla raccolta e all’elaborazione dei dati relativi ai comportamenti di acquisto e di consumo della clientela. Tali informazioni, solitamente raccolte e archiviate nel database aziendale, costituiscono la base per lo sviluppo di relazioni basate sulla fiducia e sulla conoscenza che abbiano valore per il cliente e per l’impresa. Attraverso l’analisi sistematica dei dati, infatti, l’impresa può monitorare il grado di soddisfazione del cliente e pianificare azioni dirette a migliorare i processi di servizio, così da favorirne nel tempo la fidelizzazione.
L’implementazione di un processo di CRM, tuttavia, richiede un continuo sforzo di comprensione dei bisogni e desideri del cliente e l’abilità di adattarsi rapidamente a cambiamenti nel suo comportamento di acquisto e di consumo. Inoltre, esso implica l’impiego di forme e canali di comunicazione di tipo narrowcasting che favoriscono il dialogo con i clienti e, dunque, permettono di recepire meglio i loro bisogni per fornire valide soluzioni alle loro aspettative.
Un processo di CRM si articola nelle seguenti fasi: l’inserimento nel database dei clienti o potenziali clienti; la loro profilazione attraverso l’analisi delle transazioni o delle altre informazioni disponibili; la creazione di cluster e la formazione del portafoglio clienti sulla base del loro valore per l’impresa; la pianificazione delle azioni da attivare per accrescere il valore del portafoglio clienti e la loro vera e propria esecuzione; la verifica ex post del raggiungimento degli obiettivi prefissati e l’implementazione del processo.
Da evidenziare come l’obiettivo prioritario di ogni progetto o programma CRM sia quello di conservare i clienti che generano maggiore profitto, incrementandone la redditività nel tempo. Per realizzare la piena potenzialità di profitti da ciascun cliente, l’impresa può, ad esempio, offrire prodotti o servizi aggiuntivi
rispetto a quanto già acquistato al cliente (cross-selling), oppure proporre versioni qualitativamente superiori del prodotto o servizio inizialmente richiesto (up-selling). Il CRM, inoltre, si prospetta come un eccellente approccio gestionale per sviluppare strategie commerciali e di marketing che mirano all’acquisizione di nuovi clienti.
Il CRM si avvale dell’impiego delle tecniche e degli strumenti del direct marketing – e oggi più che mai del digital marketing in ragione delle sue caratteristiche peculiari – per stabilire e sostenere relazioni di tipo personalizzato e interattivo con clienti e prospect. Si rimanda alle specifiche voci per approfondimenti.
Dal CRM tradizionale al Social CRM
Più di recente, si è diffuso l’uso dell’espressione Social CRM (SCRM) per indicare un nuovo approccio CRM che abbraccia la dimensione social (social network e User Generated Content o UGC) per raggiungere i clienti, acquisiti e potenziali, e per aumentarne il coinvolgimento, in un’ottica relazionale e collaborativa. Il Social CRM può, infatti, essere definito come “una filosofia e una strategia di business (supportata da piattaforme tecnologiche, regole di business, processi e fattori sociali) finalizzata all’engagement del consumatore con lo scopo di fornire mutuo beneficio; il tutto all’interno di una conversazione collaborativa in un ambiente di business affidabile e trasparente” (Greenberg, 2009).
Grazie all’applicazione delle tecnologie e delle infrastrutture del Web 2.0 ai processi di CRM l’impresa può oggi disporre sia di una più profonda conoscenza della propria clientela che di nuove modalità di comunicazione, più sociali e interattive, per mantenere nel tempo i legami con essa. Del resto, sono i clienti stessi che, quando soddisfatti dei prodotti o servizi acquistati, li consigliano spontaneamente ai propri conoscenti, innescando così il passaparola tra i consumatori (vedi brand advocate). Per di più, il consumatore ha oggi a disposizione una pluralità di canali e strumenti attraverso i quali condividere con altri utenti le proprie esperienze di acquisto e di consumo: recensioni, rating, feedback, commenti e post pubblicati sui social network.


FUNNEL:
Funnel: modello di marketing tradizionalmente impiegato per descrivere e analizzare il path to purchase, ossia il percorso compiuto dal consumatore nel corso del processo di acquisto, dal momento della consapevolezza dell’esistenza di un certo prodotto, all’acquisto del prodotto medesimo.
Il funnel (letteralmente, imbuto) fornisce una metafora semplice quanto efficace per rappresentare gli stadi di avanzamento del processo decisionale: il consumatore, partendo da un elevato numero di brand o prodotti conosciuti, procede, per fasi successive, a una scrematura progressiva degli stessi fino ad arrivare alla scelta d’acquisto finale.
Il modello del purchase funnel (anche noto come marketing funnel o sales funnel o buying funnel) può essere considerato come un’evoluzione del classico modello AIDA, che vede la pubblicità come una forza che deve indurre le persone all’azione attraverso una successione di fasi, tutte necessarie affinché il messaggio pubblicitario abbia effetto e raggiunga il suo scopo. Il modello del funnel, in modo analogo, muove dall’assunto che la il marketing e la comunicazione aumentino la propensione all’acquisto del consumatore generando nel potenziale acquirente un livello crescente di attenzione e coinvolgimento, fino ad indurlo alla decisione d’acquisto.
Premesso che le definizioni possono essere diverse a seconda del modello di business adottato, l’approccio più noto del funnel, conosciuto come “traditional funnel”, appare anche quello più articolato, poiché non termina al momento dell’acquisto ma continua con la fidelizzazione del cliente. Più nel dettaglio, esso si compone di cinque fasi consecutive:
– Awareness: è la prima fase in cui si manifesta l’influenza della pubblicità; il consumatore acquisisce consapevolezza dell’esistenza del prodotto in questione. In questo stadio, più in generale, il consumatore scopre l’esistenza di una categoria di prodotto e comincia a prendere in considerazione un set di prodotti o brand al suo interno.
– Familiarity: il consumatore, una volta verificate le percezioni sul brand o prodotto attraverso la raccolta di informazioni (motori di ricerca, recensioni, passaparola, ecc.) lo inserisce in un ideale “short list”; il brand o prodotto diviene così “familiare” e quindi riconoscibile per caratteristiche e benefici nell’ampia gamma di prodotti disponibili sul mercato.
– Consideration: il consumatore, dopo aver sviluppato la consapevolezza di ciò che esiste e come viene offerto, confronta caratteristiche e prezzi di un numero ristretto di prodotti o brand.
– Purchase: è il momento dell’acquisto; rappresenta il conseguimento di un obiettivo fondamentale per l’impresa, ma non la fase conclusiva del processo di convincimento del cliente.
– Loyalty: il consumatore, dopo aver comprato il prodotto, verifica se le sue aspettative sono state soddisfatte sulla base dell’esperienza d’uso e di consumo e orienta in questo modo le decisioni successive di acquisto; un cliente soddisfatto, in genere, non solo riacquista il prodotto nel tempo, ma è anche propenso a diffonderne un’immagine positiva attraverso il passaparola (vedi loyalty).
L’evoluzione del modello: dal funnel al journey
Per comprendere appieno il modello del funnel occorre inquadrarlo nel contesto specifico in cui è maturato. Prima di Internet, l’approccio al mercato dell’impresa era incentrato su strategie di tipo push, dettate da una logica di comunicazione tipo broadcasting, basata sul modello one-to-many, proprio della comunicazione di massa (comunicazione unidirezionale che si rivolge a una audience passiva). La funzione attribuita al marketing in tale contesto era, in sostanza, quella di intercettare il consumatore durante il processo di acquisto, attraverso i principali canali di comunicazione (televisione, radio, stampa, comunicazione in-store, ecc.), al fine di indirizzarlo verso la scelta di un prodotto specifico.
Questo modello, lineare e monodirezionale, è stato superato dall’avvento delle nuove tecnologie e dalla diffusione di Internet che hanno determinato il passaggio a un nuovo paradigma. L’aumento esponenziale dell’offerta di prodotti e servizi associato all’evoluzione tecnologica, alla frammentazione dei media e alla conseguente moltiplicazione dei touch point tra il consumatore e il brand ha modificato radicalmente sia il comportamento di acquisto del consumatore sia il modo in cui le aziende fanno business. Con l’avvento della Rete e, in particolar modo, del Web 2.0 il consumatore non è più fruitore passivo ma attore attivo e interattivo nel processo d’acquisto, in grado di influenzare le decisioni di acquisto di altri consumatori.
Questo nuovo contesto rende il path to purchase sempre meno rappresentabile come un percorso lineare strutturato in una successione ordinata di fasi. Il processo decisionale nell’era digitale assomiglia, invece, sempre più a un processo circolare in cui tutte le fasi del funnel si influenzano a vicenda e concorrono al raggiungimento del risultato finale. Ciò che conta, in definitiva, è l’esperienza vissuta dal cliente, che si forma attraverso ogni singolo momento della sua interazione con l’azienda. La customer experience, secondo una nota definizione, è “la reazione interiore e soggettiva del cliente di fronte a qualsiasi contatto diretto o indiretto con un’impresa” (Meyer e Schwager, 2007, Understanding customer experience, Harvard Business Review). Più nel dettaglio, i contatti diretti sono le interazioni dirette che avvengono nel corso dell’acquisto e dell’uso di un prodotto; i contatti indiretti, invece, sono incontri che non avvengano in contesti interpersonali, ma il tramite dei canali di vendita e di comunicazione attivati dall’impresa (pubblicità sui mass media, on-line e nel punto vendita, eventi, comunicati stampa, ecc.), per il passaparola di terzi (ad esempio, raccomandazioni e recensioni di altri consumatori) o provengono da altri incontri con l’impresa o con il prodotto non programmati dal consumatore.
Il funnel di conversione
Nel web marketing, è molto diffusa l’espressione conversion funnel per descrivere il percorso di conversione dell’utente attraverso i suoi momenti chiave. Partendo dalla parte più alta dell’imbuto ci sono i prospect, che successivamente si trasformano in lead e, infine, diventano clienti. Si rimanda alle specifiche voci per approfondimenti.
Il funnel di conversione può essere rappresentato anche in termini di:
– Top of the funnel (TOFU). La parte superiore dell’imbuto di conversione prevede la consapevolezza del consumatore circa l’esistenza del servizio o del prodotto in questione. In termini di comunicazione, la fase iniziale corrisponde alla creazione della awareness, o notorietà di marca e/o di prodotto, nella testa del consumatore. Per conseguire questo risultato, l’impresa può attivare campagne pubblicitarie sui mezzi tradizionali (campagne televisive, stampa, affissioni ecc.) o campagne online (display advertising, social media marketing, search advertising, ecc.).
– Middle of the funnel (MOFU). La fase intermedia del funnel è quella in cui il consumatore, attraverso la ricerca di informazioni, viene a conoscenza delle qualità e delle caratteristiche del prodotto e valuta se acquistarlo o meno (dopo aver confrontato prezzi e caratteristiche dei prodotti concorrenti). Tale fase corrisponde alla creazione di consideration per il brand o prodotto nella testa del consumatore. In altri termini, l’impresa deve fare in modo che i propri brand e prodotti facciano parte del consideration-set del potenziale acquirente; il consideration set è l’insieme dei prodotti o brand, fra l’universo disponibile sul mercato, che un consumatore prende in considerazione relativamente ai suoi bisogni.
– Bottom of the funnel (BOFU). La fase conclusiva del funnel è quella in cui viene espressa dal consumatore una preferenza circa un dato prodotto rispetto a tutte le altre possibili alternative e con essa si manifesta l’intenzione di acquisto. In questa fase, si verifica uno specifico evento di conversione: il consumatore compie quella specifica azione, identificata dall’inserzionista quale obiettivo dell’iniziativa pubblicitaria – in risposta agli stimoli trasmessi dal contenuto pubblicitario: ad esempio, l’atto di acquisto o l’atto di sottoscrizione di una newsletter.






ADVERTISING:
Advertising: forma di comunicazione a pagamento che viene commissionata da un soggetto chiaramente riconoscibile per diffondere attraverso i mezzi di comunicazione la propria offerta di idee e di prodotti ed influenzare le scelte del pubblico obiettivo (target) riguardo un dato bene di consumo o modello di comportamento.
Con il termine advertising (che deriva dal verbo to advertise, cioè avvertire, far conoscere), solitamente ci si riferisce alla pubblicità tabellare, pianificabile sui media di massa, quali televisione, radio, stampa, pubblicità esterna e internet. Nella stragrande maggioranza dei casi l’advertising ha una finalità economica (pubblicità commerciale), ma può essere anche finalizzato a conseguire obiettivi di pubblica utilità (pubblicità non commerciale). Quando si usa la parola pubblicità in senso più generale, cioè per indicare la conoscenza pubblica di una cosa, una persona o una caratteristica che la contraddistingue, si usa il termine publicity; a differenza della pubblicità tabellare, la publicity non rappresenta, in genere, una forma di comunicazione a pagamento: si pensi ad esempio agli articoli redazionali e ai servizi o citazioni in programmi televisivi.
Il digital advertising, in particolare, si suddivide, sulla base delle tipologie di siti web pianificabili, in display advertising, che comprende diverse forme di pubblicità espositiva (su portali, siti di news o editoriali, siti
verticali, social network e blog, siti di e-shopping) e search advertising, in cui rientra la pubblicità sui motori di ricerca. Tra le forme di digital advertising maggiormente utilizzate rientrano anche l’email marketing e l’affiliate marketing. Per approfondimenti si rimanda alla voce digital marketing.
In funzione degli obiettivi dell’azione pubblicitaria, è possibile suddividere la pubblicità commerciale in pubblicità istituzionale (corporate advertising) e pubblicità di prodotto (product advertising). La pubblicità istituzionale viene utilizzata per promuovere l’operato di organizzazioni pubbliche e private, persone, modelli di comportamento o di consumo, idee e questioni politiche inerenti alle organizzazioni, ecc.; se utilizzata per promuovere la posizione di un’organizzazione su una questione pubblica, si parla più propriamente di advocacy advertising. Il fine ultimo del corporate advertising è, in estrema sintesi, quello di creare l’identità di un’impresa (corporate identity) e favorire un atteggiamento positivo da parte degli stakeholder. La pubblicità di prodotto serve invece a stimolare la domanda di una categoria di prodotti (pubblicità pionieristica o informativa), o di un prodotto, brand specifico (pubblicità competitiva o concorrenziale). La pubblicità pionieristica viene utilizzata per informare il pubblico dell’esistenza di un nuovo prodotto e, in particolare, per farne conoscere caratteristiche, usi e vantaggi ai potenziali acquirenti; ha dunque come scopo quello di creare la domanda nella fase iniziale del ciclo di vita del prodotto. La pubblicità comparativa viene utilizzata per persuadere il pubblico a scegliere una determinata marca rispetto a una concorrente; ha come finalità quella di alimentare una domanda selettiva in casi di forte concorrenza sul mercato. La pubblicità comparativa, a sua volta, può declinarsi in diverse forme; le principali sono la pubblicità di ricordo e la pubblicità di rinforzo. La pubblicità di ricordo rammenta ai clienti che una certa marca è ancora sul mercato e continua a offrire determinate caratteristiche, usi e vantaggi, mentre la pubblicità di rinforzo rassicura i clienti di avere scelto la marca giusta e suggerisce come trarne la massima soddisfazione.


MIX PROMOZIONALE:
Mix promozionale (promotional mix). Combinazione di strumenti e approcci di comunicazione diversi utilizzati sia per accrescere la visibilità dell’impresa e dei suoi prodotti e per stimolarne l’acquisto sia per creare e consolidare nel tempo una relazione fiduciaria con la clientela.
Il mix promozionale attiene alle decisioni e alle azioni associate alla definizione dei processi di comunicazione pubblicitaria e promozionale e dei mezzi più opportuni per veicolare un messaggio coerente al target di riferimento dell’impresa; implica, di conseguenza, la pianificazione e gestione coordinata di tutte le leve di comunicazione previste dal piano di marketing. Più in generale, l’espressione mix promozionale viene utilizzata per indicare la leva del marketing mix costituita dalle comunicazioni di marketing. È per questo che ormai si parla indifferentemente di mix promozionale (promotional mix) o di mix comunicazionale (communication mix); più spesso è usata l’espressione mix della comunicazione integrata di marketing (marketing communications mix) nelle quale confluiscono le precedenti (Vedi Promozione per approfondimenti).
Il promotional mix, nella sua versione di base, è composto da: pubblicità (advertising), promozione delle vendite (sales promotion), vendita personale (personal selling) e pubbliche relazioni (public relations). Un’impresa può scegliere di utilizzare una o più leve contemporaneamente. La scelta della combinazione ottimale delle leve di comunicazione dipende essenzialmente dagli obiettivi e dalle politiche promozionali dell’impresa, dall’entità del budget promozionale, dalle caratteristiche del mercato obiettivo e del prodotto e dalle politiche di canale (politiche push e/o pull).
Se al momento in cui iniziò a diffondersi il concetto di mix promozionale erano solo quattro gli strumenti a disposizione dei responsabili marketing, oggi le imprese possono usufruire di un’ampia gamma di attività e tecniche promozionali per informare, coinvolgere, influenzare i consumatori e spingerli all’acquisto dell’offerta aziendale. Viene infatti pienamente riconosciuta la valenza comunicazionale di molteplici iniziative quali gli eventi, le sponsorizzazioni, il product placement, il merchandising, il packaging, azioni sul punto vendita, l’allestimento di temporary shop, ecc. La definizione del mix promozionale evolve alla luce soprattutto di Internet e dei new media coinvolgendo alcuni aspetti innovativi, quali il direct marketing e il direct response, il marketing interattivo, l’e-mail marketing, il social media marketing, il marketing virale e altre forme di marketing non convenzionale come il guerrilla marketing, l’ambient marketing ecc.


MEDIA MIX:
Per media mix si intende l’impiego combinato di mezzi di comunicazione nell’ambito di un piano mezzi. Concerne l’abilità di adottare strategie di comunicazione multicanale che permettono di massimizzare il ritorno dell’investimento pubblicitario (ROI) senza sovrapposizioni o distonie fra i diversi canali di comunicazione e, dunque, senza dispersione di costi.
Riguarda tipicamente le decisioni relative alla scelta dei canali attraverso i quali veicolare il messaggio pubblicitario e, dunque, implica la capacità di utilizzare i diversi media in funzione delle loro caratteristiche specifiche e distintive. Il media mix ottimale, in sintesi, descrive quella combinazione di mezzi e veicoli che permette di conseguire al meglio gli obiettivi di una specifica campagna pubblicitaria, minimizzando il costo per contatto.
Il media mix può essere definito anche come combinazione di media comprati (paid media), media posseduti (owned media) e media guadagnati (earned media). Il vantaggio di tale modalità di ripartizione, che si presta particolarmente bene per le campagne online, è quello di poter includere nel media mix non solo gli spazi pubblicitari che possono essere acquistati secondo le logiche tradizionali di media buying, ma anche quelli di cui le imprese possono disporre con costi ridotti o nulli; si pensi, a titolo di esempio, alla visibilità che deriva dalla presenza sui social media: la pagina su Facebook, l’account su Twitter, il canale dedicato su Youtube, ecc.


MEDIA PLANING:
Il media planning è il processo di pianificazione delle campagne pubblicitarie sui mezzi di comunicazione. Tale attività solitamente viene svolta dal centro media per conto dell’impresa inserzionista, ma nel caso di imprese di piccole e medie dimensioni è spesso frutto di accordi diretti dell’impresa con la concessionaria pubblicitaria o con l’editore.
La pianificazione media descrive il processo nel quale a fronte di un’offerta smisurata e trasversale di possibili spazi e investimenti si arriva a selezionare i mezzi e i veicoli più idonei ai fini del raggiungimento degli obiettivi di comunicazione di una specifica campagna pubblicitaria, tenuto conto essenzialmente della strategia media formulata, del budget pubblicitario stanziato, del target selezionato.
Scopo primario dell’attività di media planning è l’elaborazione e la realizzazione di un piano mezzi ottimale per una specifica campagna, in grado di generare la maggior pressione pubblicitaria possibile con il budget disponibile, massimizzando la reach e la frequency nelle attività pianificate.
Concretamente, il processo di media planning implica lo svolgimento delle seguenti attività:
– l’identificazione del pubblico obiettivo, destinatario della campagna di comunicazione (target definition);
– la stima della soglia ottimale di investimento e una prima allocazione delle risorse fra i principali mezzi di comunicazione (budget setting);
– la selezione dei mezzi e veicoli più idonei a raggiungere il target media in modo efficace ed efficiente (channel strategy);
– la stima dei risultati di comunicazione ottenibili attraverso un ipotesi di piano mezzi; si cerca, in altri termini, di misurare gli effetti prodotti dai messaggi pubblicitari ex ante, cioè prima del lancio della campagna, in genere sulla base di panel socio-demografici (pre-evaluation);
– la negoziazione e l’acquisto degli spazi pubblicitari (media buying);
– la realizzazione delle attività operative necessarie per la messa in onda della campagna, laddove richieste e non svolte da parti terze, e la verifica delle singole uscite del piano (execution);
– la misurazione dei risultati conseguiti dalla campagna pubblicitaria (post-evaluation);
– l’implementazione del piano (implementation).


DIRECT MARKETING:
Direct Marketing: sistema interattivo di marketing che utilizza uno o più mezzi di comunicazione diretti al consumatore per produrre risposte e/o transazioni misurabili (Direct Marketing Association).
Prevede l’impiego di canali di comunicazione e di vendita diretti (i cosiddetti canali di direct marketing) per raggiungere i clienti e comunicare loro informazioni sui prodotti e sull’organizzazione, così che essi possano poi acquistarli via posta, telefono o Internet. Questi canali, infatti, permettono all’impresa di svolgere l’intero processo di vendita interagendo direttamente con il consumatore finale senza ricorrere a intermediari commerciali (v. canali di distribuzione).
Nel corso degli anni ha avuto un forte sviluppo, nell’ambito della distribuzione, la formula del non-store retailing, cioè un sistema di vendita al dettaglio che, non facendo uso di punti vendita in sede fissa, utilizza i canali di marketing diretto per raggiungere direttamente il target group; il direct marketing rappresenta dunque una formula distributiva, oltre che una modalità di comunicazione (vedi Mix promozionale)
Le caratteristiche distintive del marketing diretto
Prerequisito del direct marketing è la raccolta di dati sui clienti e la loro organizzazione in un database di marketing (customer database), ovvero in un archivio di nominativi costituito da una parte anagrafica (dati statici) e da tutte le ulteriori informazioni raggiungibili sui potenziali interlocutori dell’impresa (dati dinamici). Grazie al database l’impresa è in grado di leggere e di interpretare in ottica commerciale le informazioni sul comportamento dei clienti, rilevate e aggiornate in modo sistematico.
Caratteristica fondamentale del direct marketing è, infatti, la selettività del messaggio: l’impresa rivolge la propria comunicazione a un pubblico preselezionato e ben individuato sulla base delle informazioni estrapolati dal database clienti. Da questo contatto selettivo e individuale con il cliente deriva la personalizzazione della comunicazione, che viene il più possibile adattata alla soddisfazione di precise esigenze individuali (v. marketing onetoone), nonché d interattività del processo: il destinatario dell’azione svolta dall’impresa viene indotto a esprimere una precisa risposta comportamentale (acquisto del prodotto, richiesta di informazioni aggiuntive, richiesta di campioni prova o di materiale promozionale). La misurabilità dell’efficacia dell’azione svolta, ossia la possibilità di misurare puntualmente la reattività e l’interattività degli utenti a una comunicazione commerciale, è di conseguenza un preciso plus del direct marketing; le risposte ottenute attraverso un’iniziativa di marketing diretto rivolta un target specifico possono infatti essere valutate in termini di redemption, in ragione cioè del numero di casi in cui il destinatario della comunicazione si è comportato secondo lo stimolo proposto dal messaggio.


I canali di direct marketing
Il direct marketing si caratterizza pertanto per la capacità di raggiungere un target specifico e di instaurare un dialogo diretto e personalizzato con il cliente esistente o potenziale (effettuato a distanza, salvo eccezioni), nel duplice intento di ottenere una risposta immediata e sviluppare un rapporto a lungo termine (v. marketing relazionale). A tal fine, esso può assumere una molteplicità di forme: direct mail, marketing su catalogo, telemarketing, direct-response marketing e marketing on-line.
Seguendo una classificazione alternativa, basata sui canali di comunicazione e vendita utilizzati dal direct marketing, si possono invece individuare le seguenti categorie: vendita diretta (ad esempio, la vendita porta a porta), vendita per corrispondenza e da catalogo, vendita per telefono (telemarketing), vendita attraverso l’uso dei media classici (ad es. la televendita) e vendita via Internet (e-commerce).
Semplificando, i canali utilizzati dal direct marketing si possono suddividere fondamentalmente in due macro-categorie:
Vendita per corrispondenza, da catalogo o per telefono
Il direct mail è un’azione promozionale che utilizza il servizio postale o altro servizio di recapito per la distribuzione di un messaggio pubblicitario. Nel marketing su catalogo, invece, un’organizzazione fornisce un catalogo su cui i clienti scelgono alcuni prodotti da ordinare successivamente per posta, telefono o, sempre più frequentemente, Internet. Il telemarketing, infine, consiste nell’impiego del telefono per interagire e vendere direttamente ai consumatori.
Pubblicità a risposta diretta
Il direct response advertising è una forma pubblicitaria che utilizza media classici e new media (v. media) per produrre una risposta misurabile, ovvero per convertire potenziali clienti in clienti effettivi (e per mantenerli tali). Si verifica quando un’impresa pubblicizza un prodotto e lo rende disponibile tramite ordinazioni via posta, telefono o Internet.
Se i canali di comunicazione utilizzati sono quelli classici (stampa, televisione e radio), solitamente la risposta viene richiesta sotto forma di lettera, coupon o telefonata. Ad esempio, una pubblicità a mezzo stampa realizzata per promuovere prodotti che il cliente può comprare compilando un modulo d’ordine inserito nell’annuncio; oppure uno spot tv che pubblicizza prodotti che possono essere acquistati chiamando un numero telefonico gratuito e pagando con carta di credito. Da notare come i media classici consentano di realizzare una comunicazione interattiva, oltre che mediante l’uso del telefono, attraverso l’indicazione dell’indirizzo e-mail aziendale o del sito web cui riferirsi.
Altre forme di rapporto diretto con la clientela riguardano i new media; Internet è utilizzato da un numero sempre maggiore di imprese come veicolo per la trasmissione di messaggi che richiedono risposte tipiche del direct response advertising (ad esempio, l’ e-mail marketing). Inoltre, se alcune imprese usano i canali digitali, spesso in sinergia con quelli tradizionali, per aumentare le vendite, altre organizzazioni vendono prodotti esclusivamente attraverso i canali digitali (v. e-commerce). La vendita al dettaglio online (online retailing) permette ai consumatori di cercare, confrontare e acquistare prodotti via Internet; il dettagliante online, proprio come nel caso di quello tradizionale, si fa carico delle transazioni e di funzioni informative e di assistenza all’acquisto analoghe, ma a costi molto bassi in virtù dell’assenza di oneri per le strutture fisiche di vendita.
Nella pubblicità online, in particolare, si usa l’espressione direct response per indicare una forma specifica di display advertising che si pone l’obiettivo di ricevere delle risposte immediatamente misurabili per quantità e per qualità. Con la classica pubblicità espositiva ha in comune mezzi e diffusione almeno per quella parte del messaggio che contribuisce a rafforzare l’ immagine e la notorietà di marca dell’impresa
inserzionista. La finalità del direct response advertising, tuttavia, non è tanto quella di pubblicizzare un certo prodotto o servizio, quanto quella di sollecitare una reazione da parte del destinatario del messaggio; la risposta consiste, generalmente, in un click sull’annuncio pubblicitario o link sponsorizzato che rimanda l’utente al sito web dell’inserzionista o a una landing page appositamente predisposta per il prodotto o servizio promosso.


EMAIL MARKETING:
Email marketing: forma di marketing diretto che si serve della posta elettronica per veicolare messaggi, commerciali e non, in modo diretto e personalizzato, al fine di acquisire nuovi clienti o fidelizzare quelli esistenti.
Per le aziende i vantaggi dell’ email marketing sono l’efficienza e la convenienza (quest’ultima soprattutto quando esso viene gestito internamente); le aziende traggono beneficio dalla capacità di raggiungere rapidamente un pubblico profilato, a bassi costi. Un ulteriore punto di forza deriva dal fatto che l’ email marketing è regolato da un sistema di opt-in: presuppone cioè l’autorizzazione ad un’azienda da parte del destinatario all’uso dei propri dati personali al fine di ricevere informazioni e promozioni su prodotti e servizi. Il ricorso ad una strategia di richiesta del consenso all’invio di comunicazioni commerciali (permission marketing) aumenta l’efficacia delle campagne di email marketing: i messaggi tendono ad avere un tasso di apertura e lettura più elevato, proprio per il fatto che vengono inviati a una lista di utenti che hanno dato il proprio consenso a ricevere comunicazioni commerciali.
Le aziende, d’altra parte, devono sapersi adattarsi alle esigenze dei destinatari delle campagne per sfruttare al meglio questo strumento di comunicazione, proponendo soluzioni commerciali il più possibile in linea con il loro profilo e il loro comportamento di navigazione o di acquisto; è tanto importante saper scegliere accuratamente la propria promozione quanto modulare la frequenza dei messaggi, in modo che quest’ultimi non risultino invadenti, inappropriati o di scarso interesse per il ricevente, in altre parole, a rischio di spam.
L’ email marketing risponde, più in generale, a due diverse finalità. L’azienda si propone, da un lato, di conseguire obiettivi di vendita (ovvero, generare conversion in breve tempo), dall’altro, di sviluppare e mantenere i rapporti con i propri contatti nel tempo, siano essi clienti esistenti o potenziali, partner, fornitori o i vari altri stakeholder di riferimento. Tra gli strumenti utili al perseguimento delle suddette finalità vi sono, nel primo caso, le email pubblicitarie o DEM (Direct Email Marketing) e, nel secondo, le newsletter. Di seguito, un approfondimento sulle DEM come strumento pubblicitario.


Le DEM (Direct Email Marketing o Direct E-Mailing)
Il principale e più diffuso strumento di email marketing sono le DEM (Direct Email Marketing o Direct E-Mailing), email pubblicitarie inviate a una lista di utenti che hanno accettato di ricevere dei messaggi promozionali coerenti con gli interessi dichiarati.
L’ invio di DEM può essere effettuato sulla base di una lista di destinatari propria (ovvero, su un database proprietario), oppure con il ricorso a liste fornite da terzi (editori, agenzie e concessionarie pubblicitarie). Si tratta, in questo secondo caso, di vere e proprie campagne pubblicitarie che si basano sull’utilizzo di liste profilate per l’individuazione di nuovi clienti (prospecting). Secondo una logica prettamente pubblicitaria, solitamente l’azienda committente paga un costo per ogni invio effettuato; l’unità di misura di riferimento è Costo Per Mille o CPM.
Tali campagne sono spesso indirizzate, oltre che agli individui che hanno espressamente dato la propria disponibilità a ricevere informazioni per l’acquisto di un determinato prodotto, anche a tutti coloro che
vengono identificati come potenziali acquirenti di un prodotto o servizio in base al profilo sociodemografico, di comportamento o di interessi. Integrando i dati forniti volontariamente dagli utenti con i dati di navigazione degli stessi in un sistema di CRM o in una piattaforma professionale di email marketing, infatti, è possibile sviluppare specifici modelli comportamentali, detti behaviour patterns, in grado di identificare, in maniera dinamica, cluster di consumatori più ricettivi nei confronti di particolari tipologie di messaggi pubblicitari o specifiche offerte di prodotto. In tal modo, le aziende riescono a promuovere proposte pertinenti e personalizzate, implementando così l’efficacia delle campagne di direct email marketing.
Per far fronte alla crescente complessità dei programmi di direct emailing, le aziende sempre più spesso ricorrono all’utilizzo di piattaforme esterne per la gestione degli invii e per la profilazione delle liste. Da un punto di vista pratico, l’uso di tali piattaforme tecnologiche permette l’invio di e-mail in modo automatico, oltre che manuale. I messaggi automatici, che rientrano nella categoria dei messaggi transazionali, sono spesso usati per offrire servizi utili al destinatario (come notifiche e avvisi di scadenze), oltre che per veicolare promozioni mirate. Dal punto di vista, invece, dei risultati, tali piattaforme prevedono un articolato sistema di reportistica che permette di tracciare con precisione i comportamenti dell’utente a partire dall’apertura dell’email.
Metriche dell’ email marketing
Gli indicatori più utili e comunemente utilizzati per valutare l’efficacia delle campagne di direct email marketing sono i seguenti:
– Delivery rate: esprime la percentuale di email recapitate sul totale di invii effettuati in un dato periodo di tempo. In formula: delivery rate = (email delivered*/ email sent) x 100
*Laddove le email delivered sono le email effettivamente recapitate nella casella di posta in arrivo (inbox delivered). Si calcolano escludendo dal computo delle email inviate il numero di quelle errate o non consegnate (bounce) nella casella di posta a causa di una casella di posta piena o inesistente, di un indirizzo errato o nel caso di e-mail finita in spam. In formula: email delivered = email sent – email bounced
– Bounce rate: esprime la percentuale di mancate consegne sul totale di invii effettuati in un dato arco di tempo. In formula: (email bounced/ email sent) x 100
– Open Rate o OR: esprime il numero di volte in cui il messaggio è stato aperto (opens) rispetto al numero di persone che lo hanno ricevuto. In formula: (opens/ email delivered) x 100
– Unique Open rate: esprime il numero di utenti che hanno aperto almeno una volta il messaggio (unique opens) rispetto al numero di persone che lo hanno ricevuto. In formula: (unique opens/ email delivered) x 100
– Click-Through Rate o CTR: esprime il numero di click sui link contenuti nel messaggio rispetto al numero di persone che lo hanno ricevuto. In formula: (clicks/ email delivered) x 100
– Unique Click-Through Rate o UCTR: esprime il numero di utenti che, dopo aver aperto l’email, hanno cliccato su di un link al suo interno e sono atterrati nel sito promosso dall’inserzionista rispetto al numero di persone che hanno ricevuto l’email. In formula: (unique clicks / email delivered) x 100
– Click-To-Open Rate o CTOR: esprime la percentuale di utenti che, dopo aver aperto l’email, hanno cliccato su di un link al suo interno e sono atterrati nel sito promosso dall’inserzionista rispetto al numero di persone che hanno aperto almeno una volta l’email. In formula: (unique clicks / unique opens) x 100
– Conversion rate: esprime la percentuale di conversioni (utenti che, sollecitati dal messaggio della email, hanno compiuto una specifica azione di direct response: iscrizione alla newsletter, un ordine di acquisto, download di un’applicazione o di un contenuto multimediale, ecc) rispetto al numero di persone che ha ricevuto l’email. In formula: (conversions/ email delivered) x 100
– Unsubscribe rate: esprime la percentuale di utenti che ha abbandonato un servizio in un dato periodo di tempo rispetto al numero totale di utenti che ne ha usufruito nello stesso periodo; ad esempio, coloro che hanno richiesto la cancellazione del proprio indirizzo dalla mailing list di una newsletter per non ricevere più le email a fini promozionali e pubblicitari. In formula: (unsubscribers/ email delivered) x 100


REFERRAL:
Referral: termine di uso comune nel marketing per indicare le segnalazioni o raccomandazioni di persone che, conoscendo l’azienda produttrice, suggeriscono a terzi di rivolgersi alla stessa per la qualità e le prestazioni dei suoi prodotti e servizi. Per estensione, il termine è usato per indicare anche quei soggetti, in genere clienti, disposti a fornire referral in cambio di una qualche forma di ricompensa.
Tutte le iniziative di marketing che si avvalgono del coinvolgimento di tali soggetti ai fini dell’acquisizione di nuovi clienti rientrano nel campo specifico del referral marketing. Le aziende attente, che si rendono conto dell’importanza della comunicazione basata sul passaparola, tentano di individuare persone che, conoscendo il prodotto o servizio proposto, siano disposte a promuoverlo all’interno della propria cerchia di amici e conoscenti.
Un referral program, in particolare, è l’accordo con il quale il referral, ossia colui che entra in un programma di guadagno su indicazione di un altro individuo già iscritto, riconosce a quest’ultimo una commissione sulle vendite generate a seguito all’appartenenza al programma.
Un tipico esempio della meccanica di tali programmi di marketing è la formula member-get-a-member che ricompensa ogni utente già iscritto che invita altri utenti a iscriversi a un programma di affiliazione o ad aderire a un determinato servizio. Da evidenziare, che i programmi di referral hanno successo quando includono benefici anche per i nuovi iscritti: ad esempio, Dropbox che incoraggia ad utilizzare il sistema di referral offrendo uno spazio di archiviazione aggiuntivo sia agli utenti già acquisiti che portano nuovi clienti sia a quest’ultimi.
Nel gergo della pubblicità online, invece, si verifica un referral quando un utente fa clic su un link ipertestuale, banner o altro, che lo che rimanda a un’altra pagina. Viene definito referrer, viceversa, il sito web che, ospitando il link, può generare un referral, ovvero una visita al sito dell’inserzionista a seguito del click dell’utente. Solitamente, l’azienda inserzionista riconosce ai referrer un compenso (referral fee) in proporzione al volume di lead o vendite generate.
Sempre nell’ambito del digital marketing, infine, si parla di referral con riferimento alle segnalazioni raccolte da diversi siti (denominati referral web-site) di utenti qualificati come potenzialmente interessati ai prodotti o servizi di una specifica azienda. Parliamo, ad esempio, dei siti comparativi dove gli utenti possono compilare un form online con i propri dati personali per ricevere informazioni circa un prodotto o essere contattati dall’azienda produttrice.



TARGETING:
Il targeting descrive il processo che, a partire dagli obiettivi di marketing dell’impresa e attraverso una fase preliminare di analisi e segmentazione della domanda di mercato, consente di individuare i segmenti obiettivo (target) verso i quali orientare il marketing mix dell’impresa.
Nell’ambito del processo di segmentazione del mercato, la fase di targeting segue quella di segmentazione vera e propria e precede quella di posizionamento: una volta scelti i segmenti obiettivo verso i quali orientare l’azione commerciale, nell’ambito di quelli individuati mediante l’attività di segmentazione del mercato, si determina il modo più efficace per competere all’interno di ciascuno di essi.
Le modalità di targeting nella pubblicità online
ll targeting delle campagne pubblicitarie online (v. display advertising) può essere effettuato secondo modalità di pianificazione simili a quelle adottate per i mezzi classici, oppure in modalità programmatica (v. programmatic buying). Si distingue a tal proposito fra:
– Website-based targeting: il targeting viene effettuato attraverso una selezione di siti e sezioni affini al target della campagna per caratteristiche sociodemografiche o psicografiche, sulla base di una valutazione dei dati di fruizione mediatica rilevati dalle indagini ufficiali (Audiweb o Comscore) o forniti dal publisher;
– Audience-based targeting: il targeting viene effettuato impression per impression, grazie alla grande disponibilità di informazioni di contesto in tempo reale che consentono un’alta profilazione delle audience.
Grazie soprattutto ai dati di navigazione degli utenti raccolti attraverso l’uso di cookie è possibile sviluppare specifici modelli comportamentali, detti behaviour patterns, in grado di identificare, in maniera dinamica, cluster di consumatori più ricettivi nei confronti di particolari tipologie di messaggi pubblicitari o specifiche offerte di prodotto. In tal modo, si riesce a modulare le comunicazioni con contenuti e proposte pertinenti e personalizzate, implementando così l’efficacia delle campagne pubblicitarie on-line.
Le piattaforme automatizzate di negoziazione programmatica (v. ad exchange) hanno innovato in modo radicale il processo di pianificazione della pubblicità in rete, poiché consentono all’inserzionista pubblicitario di selezionare esclusivamente i contatti che corrispondono al target desiderato. Nel processo tradizionale di media planning, invece, l’acquisto di spazi pubblicitari viene effettuato ex-ante, ossia prima della messa in onda della campagna, e successivamente viene effettuata la misurazione effettiva dell’esposizione pubblicitaria attraverso sistemi a panel; il valore economico degli spazi pubblicitari viene definito attraverso una stima dell’audience basata sui dati rilevati dagli istituti di audiometria: Auditel, Audipress, Audiradio, ecc.


RETARGETING:
Il retargeting è una funzionalità dell’ad server che consente di ricontattare gli utenti che sono transitati per il sito web dell’inserzionista al di fuori di questo dominio. Tecnicamente, ci si avvale di cookie, tag o altri codici identificativi per profilare gli utenti che entrano in contatto con uno specifico sito e poter così riconoscerli quando navigano in altri siti web.
Le campagne di retargeting ottengono un alto tasso di conversione, dal momento che veicolano proposte commerciali personalizzate sulla base del comportamento di navigazione degli utenti e dell’affinità tematica del contesto in cui il messaggio pubblicitario viene pubblicato. Le campagne di retargeting pianificate all’interno della piattaforma di Adwords sono definite da Google come remarketing.


REMARKETING:
Remarketing: nella sua accezione più ampia, indica ogni azione di marketing diretto che si avvale dell’impiego dei dati raccolti sulla clientela per ottenere informazioni e cogliere insight in grado di generare comunicazioni con contenuti di valore e proposte pertinenti e personalizzate. Comprende tradizionalmente le attività di direct mailing o email marketing.
Il termine remarketing è oggi più spesso utilizzato come sinonimo di retargeting. In particolare, Google definisce remarketing le campagne di retargeting attivate all’interno della propria piattaforma (Adwords). Tali campagne sono pianificate e acquistate secondo il tradizionale modello pay-per-click (PPC), in virtù del quale l’inserzionista pubblicitario paga solo quando l’utente clicca sull’annuncio.
AUDIENCE TARGETING:
L’audience-based targeting è la tipica forma di targeting in tempo reale adottata per la pianificazione e l’acquisto di campagne di display advertising in modalità programmatica (programmatic buying). Nel modello di acquisto audience-based, il targeting viene effettuato impression per impression, grazie soprattutto alla disponibilità di informazioni di contesto in tempo reale che consentono un’alta profilazione delle audience.
Nel modello di acquisto tradizionale di display advertising, mutuato dai media classici, invece, il targeting viene effettuato attraverso una selezione di siti/sezioni affini al target della campagna per caratteristiche sociodemografiche o psicografiche, sulla base di una valutazione dei dati di fruizione mediatica rilevati dalle indagini ufficiali (Audiweb o Comscore) o forniti dal publisher.
L’audience targeting può essere effettuato secondo diversi criteri. Fra le principali variabili utilizzate, vi sono quelle demografiche (fascia d’età e genere), le variabili geografiche (posizione dell’utente), le variabili del comportamento d’acquisto (frequenza e occasioni d’uso di un dato prodotto) e le variabili temporali (ora del giorno e giorno della settimana).


BRAND POSITIONING:
Brand positioning: processo che, a partire dalla classificazione dei brand esistenti sul mercato secondo caratteristiche significative per il comportamento del consumatore, consente di definire la posizione che essi occupano nella mente dei consumatori.
È il risultato di una strategia di segmentazione del mercato, preceduta dalla segmentazione vera e propria e dall’analisi del target. Una volta individuato il mercato obiettivo, la fase di brand positioning permette a un’azienda di posizionare il brand o la sua comunicazione in quel mercato, definendo il modo in cui la marca vuole essere percepita dai clienti potenziali rispetto alla concorrenza. Si tratta, in altri termini, di concepire un prodotto ed una immagine di marca (brand image) in grado di occupare nella mente dei consumatori una collocazione apprezzata e diversa da quella occupata dai concorrenti.
Il processo di brand positioning tipicamente prevede una fase preliminare di analisi, che rientra nell’attività di marketing analitico e ha lo scopo di definire gli attributi principali della classe di prodotto, e una fase di formulazione della strategia di posizionamento, che rientra nell’attività di marketing strategico e attiene alla pianificazione delle attività mediante le quali l’azienda intende creare la percezione del brand nella mente dei consumatori. In questa seconda fase si formulano i contenuti dell’offerta in termini di marketing mix da rivolgere al mercato e si specificano le procedure di controllo necessarie ad accertare la posizione realmente acquisita dal brand sul mercato rispetto al posizionamento desiderato.
Il posizionamento deriva dalla formulazione di un’offerta di valore (value proposition) che costituisce la motivazione profonda che spinge un determinato gruppo di clienti a preferire una marca piuttosto di un’altra. Implica, quindi, una decisione dell’impresa circa la scelta dei benefici della marca che possono farle guadagnare uno spazio unico e ben definito nella mente dei clienti potenziali. Il brand positioning consiste, infatti, nel differenziare il proprio brand da quello degli altri presenti sul mercato attraverso l’individuazione di un elemento (oggettivo o percettivo) che lo renda unico o almeno riconoscibile. Richiama la nozione di unique selling proposition (USP), introdotta da Rosser Reeves negli anni Cinquanta, in base alla quale, nella creazione di una pubblicità si dovrebbe privilegiare la comunicazione di un vantaggio distintivo e unico del prodotto rispetto agli aspetti creativi.
Secondo Ries & Trout (1981), tra i primi a sottolineare l’importanza del brand positioning nel pensiero manageriale, il posizionamento può manifestarsi in tre distinte situazioni:
– il posizionamento attuale, che concerne il beneficio distintivo che il brand è in grado di offrire e per il quale è conosciuto dal consumatore: ad esempio la funzionalità, la convenienza, l’innovazione, ecc.
– il nuovo posizionamento, con il quale l’azienda mira a costruire la percezione che i consumatori avranno di un nuovo brand; si tratta di identificare quella qualità specifica per la quale la marca vuole essere conosciuta dal consumatore.
– il riposizionamento, attraverso cui l’azienda mira ad influire sul modo in cui i consumatori percepiscono un brand esistente. Si rende necessario quando avvengono sostanziali cambiamenti nel mercato, per soddisfare al meglio la domanda di certi gruppi di consumatori e consentire così all’impresa di mantenere un vantaggio competitivo. Quando l’azienda amplia una linea di prodotti (v. line extension) o introduce una nuova marca in un mercato in cui ne possiede già una o più (v. brand extension), il riposizionamento può rendersi necessario per ridurre al minimo l’effetto di cannibalizzazione delle vendite ed assicurare una posizione favorevole ai nuovi prodotti o brand.
Più nel dettaglio, il riposizionamento può essere reale, se comporta cambiamenti specifici nel prodotto o implica nuovi modi d’uso, oppure psicologico se cerca di influire sul modo in cui i consumatori lo percepiscono. Per “ridefinire” la percezione di un prodotto da parte dei consumatori si possono utilizzare le diverse leve del marketing mix. Il riposizionamento può, dunque, comportare modifiche fisiche, di prezzo o di distribuzione; più di frequente, soprattutto nella fase di maturità del ciclo di vita del prodotto, si interviene agendo sull’immagine di marca (brand image) percepita dai consumatori mediante campagne pubblicitarie e iniziative promozionali.
Riassumendo quanto detto sopra, se ne deduce che il posizionamento non riflette una condizione stabile e duratura, ma nel tempo può variare al mutare dell’ambiente o delle tendenze della domanda. Per le aziende è pertanto indispensabile dotarsi di strumenti di analisi e monitoraggio del brand positioning in grado di valutare se e quando è opportuno attuare strategie di riposizionamento.
Lo strumento di analisi più utilizzato per interpretare il vissuto del prodotto o brand da parte del consumatore è la mappa percettiva, o mappa di posizionamento, che consente di visualizzare come i consumatori percepiscono i propri prodotti o brand e misurare le distanze competitive fra i concorrenti. La mappa di posizionamento consiste in un diagramma cartesiano a due dimensioni, in cui, su ciascun asse, si pongono in contrapposizione due termini opposti; nel mercato automobilistico, ad esempio, potremmo posizionare i brand in base ai seguenti parametri: affidabilità/economia e confort/prestazioni.

USP:
USP (Unique Selling Proposition): in italiano “argomentazione esclusiva di vendita”, ossia l’argomento unico di vendita sul quale la campagna pubblicitaria deve fondarsi. L’USP è una breve affermazione con cui si evidenzia il singolo punto, di vantaggio o caratterizzante, o la prestazione del prodotto su cui concentrare il messaggio, per renderlo attraente agli occhi del consumatore.
L’ USP è il concetto alla base della teoria pubblicitaria sviluppata negli anni Quaranta da R. Reeves, secondo il quale la pubblicità deve offrire al consumatore una logica ragione per comprare il prodotto, e tale ragione deve distinguere il prodotto dai suoi concorrenti. Reeves sintetizzò la teoria in tre punti fondamentali: 1. ogni campagna pubblicitaria deve proporre un beneficio (benefit) per il consumatore; 2. questo deve essere tale che la concorrenza non può offrirlo; 3. il beneficio deve essere così forte da poter spingere milioni di consumatori all’acquisto.
La teoria di Reeves, in sostanza, tende a focalizzare l’attenzione di una campagna pubblicitaria sugli elementi di unicità di un prodotto rispetto alla concorrenza. Simile al concetto di USP, ma dalla connotazione più ampia, è la value proposition. Anch’essa può essere intesa come una promessa fatta al consumatore; tuttavia, la USP esprime ciò che l’azienda si impegna a garantire al cliente in termini di soluzione di un problema o appagamento di un bisogno, mentre la value proposition riguarda l’esperienza complessiva che il cliente può attendersi dal prodotto proposto e dal rapporto con l’impresa fornitrice.


COPY STRATEGY:
Copy strategy: documento che definisce gli elementi chiave di una strategia pubblicitaria sotto il profilo creativo. Fornisce l’insieme di riferimento su cui sviluppare la strategia creativa che verrà usata per comunicare al mercato le caratteristiche distintive e i benefici rivendicati dal prodotto.
Solitamente, una copy strategy è un breve documento strutturato nei punti seguenti:
– benefit: la definizione del vantaggio base che il prodotto promette ai potenziali acquirenti; è la ragione per cui il target dovrebbe essere spinto all’acquisto.
– insight: l’esigenza non soddisfatta del consumatore che è alla base della soluzione promessa;
– reason why: l’argomentazione o la prova dei fatti a supporto della promessa; rende credibile la promessa dei vantaggi offerti dal prodotto;
– supporting evidence: quel particolare fattore, in genere una caratteristica specifica o un comportamento del consumatore, che dimostra la validità della promessa;
– tone of voice: la modalità di presentazione dei vantaggi offerti dal prodotto e dei relativi argomenti che viene identificata come coerente rispetto al prodotto da comunicare e al suo posizionamento;
– altri elementi utili per poter definire la strategia creativa della campagna da proporre al cliente (ad esempio, il target group o il brand positioning), inclusi quelli che possono influenzare la percezione del prodotto da parte del consumatore: ad esempio, il brand character o la brand personality.
Copy strategy e star strategy
La copy strategy è un modello operativo sviluppato negli anni Trenta per iniziativa di alcune grandi agenzie pubblicitarie americane. Si fonda su un processo logico e razionale che, partendo dalla raccolta ed elaborazione (attraverso le ricerche di mercato) delle informazioni sul pubblico-obiettivo (target), consente di definire la strategia creativa più appropriata per comunicare i plus e i benefit che il prodotto offre. Tale processo è applicabile a tutti i clienti dell’agenzia e a tutte le forme di comunicazione, al di là dei mezzi su cui essa viene veicolata. La copy strategy, infatti, deve garantire continuità e coerenza (nel tempo e fra i mezzi) alla comunicazione pubblicitaria.
All’inizio degli anni Ottanta il pubblicitario francese J. Séguéla metterà in discussione questo modello opponendogli una strategia alternativa, definita star strategy, che vede la pubblicità non più come informazione circa l’USP di un prodotto, ma come un vero e proprio spettacolo di star. La pubblicità, secondo Séguéla, non può più essere ricondotta allo schema rigido della copy strategy: la standardizzazione delle prestazioni dei prodotti rende inefficaci tutte le strategie creative basate sull’enfasi delle caratteristiche e benefici del prodotto. La star strategy, al contrario, mira a creare una comunicazione in grado di rendere riconoscibili e desiderabili i prodotti, mettendoli in scena in maniera spettacolare.
L’approccio di comunicazione proposto da Séguéla è basato sulla metafora del prodotto come persona. Proprio come le persone, il prodotto deve avere un proprio fisico (le caratteristiche fisiche e percettive del prodotto), un proprio carattere (lo spirito che anima la pubblicità) e un proprio stile (il modo con cui ci si rivolge al pubblico); se il fisico e lo stile possono cambiare nel tempo, il carattere deve rimanere immutabile. Séguéla esorta il pubblicitario a creare un carattere unico e distintivo per il prodotto-persona, operando nell’intento di farne una celebrità; in modo analogo allo star system hollywoodiano che imponeva regole ferree per le esternazioni pubbliche degli attori (e che ha ispirato il nome star strategy).


INSIGHT:
Insight: comprensione della strategia utile alla risoluzione di un problema mediante un’intuizione che consente di rivedere il problema nella sua interezza, generando un modo di pensare completamente nuovo per risolverlo.
Insight, letteralmente è la capacità di vedere “dall’interno” una situazione per meglio comprenderla. Nel marketing, il consumer insight mette in evidenza il problema che un nuovo prodotto si propone di risolvere, dal punto di vista di vista del potenziale acquirente. Si fonda, in altri termini, sulla capacità di cogliere un bisogno non soddisfatto del consumatore, o una opportunità più favorevole di consumo che i prodotti esistenti ancora non colgono.
Elemento imprescindibile di un concept di un nuovo prodotto, dove il benefit (la promessa fatta dal prodotto al consumatore) solitamente deriva da un insight (un’esigenza non soddisfatta o un bisogno non appagato del consumatore) ed è avallato da una reason why (che giustifica e rafforza la promessa medesima).
ROI:
ROI o Return On Investment: tasso di rendimento di un investimento di marketing o di comunicazione; misura il rendimento rispetto al capitale investito. L’indice ROI si rivela particolarmente utile per confrontare tra loro i rendimenti derivanti da forme diverse di investimento.
Nella sua espressione più semplice, l’indice ROI si esprime come rapporto percentuale fra la differenza tra ricavi e costi dell’investimento e il costo stesso dell’investimento: ROI = [ (Ricavi-Costi) / Costi ] x 100
Per le campagne sui mass media, Il ROI sulla pubblicità può essere determinato anche come rapporto tra le vendite (in volume) addizionali generate dalla pubblicità e il budget pubblicitario allocato, moltiplicato per il prezzo medio di vendita al pubblico. In tal caso, l’indice ROI misura gli effetti di breve periodo della pubblicità sulle vendite incrementali, dunque, al netto degli effetti di lungo periodo e, in particolare, senza considerare il ruolo della comunicazione nel costruire l’equity del brand. Per determinare l’effettivo
contributo della pubblicità sulle vendite, peraltro, occorre prendere in considerazione anche altre variabili: distribuzione del prodotto, stagionalità del mercato, vendite promozionali, ecc.
Per valutare la reattività delle vendite alle campagne pubblicitarie – in particolar modo quelle televisive – ci si avvale spesso dei modelli econometrici. Grazie ad essi è infatti possibile mettere in relazione le vendite incrementali generate dall’advertising con i corrispettivi valori di budget sostenuti e di pressione pubblicitaria generata (tipicamente misurata in GRP).
Il ROI è usato soprattutto per la misurazione e la valutazione delle performance delle campagne di digital marketing. Fra le principali metriche utilizzate per misurare l’efficacia di un’attività commerciale o di un’iniziativa di marketing online, infatti, vi sono quelle legate alle azioni effettuate dall’utente durante la navigazione (ad esempio, visite o click), quelle relative al funnel di marketing (ad esempio, lead e conversion) e, infine, quelle utili a valutare il contribuito generato dalle attività di marketing (appunto, il ROI).
Per le campagne online più strutturate, il ritorno sull’investimento pubblicitario rappresenta una misura di sintesi più completa e, per certi versi, più significativa rispetto ad altri KPI di efficienza quali il costo per contatto (CPC) o il Cost per Acquisition (CPA). Il ROI, infatti, incorpora tutti i costi sostenuti per lo svolgimento della campagna pubblicitaria: dall’acquisto degli spazi pubblicitari (media buying), alla progettazione e alla realizzazione della campagna medesima.







CPM:
Cost per mille: in ambito pubblicitario, generalmente si intende il costo per migliaia di impression. È un indicatore di efficienza impiegato in fase di pianificazione di una campagna pubblicitaria per valutare l’economicità di un piano mezzi o di un singolo avviso. In origine cost per thousand, tale indicatore è oggi noto col nome latinizzato di cost per mille (CPM), misura che ha soppiantato il Cost Per Impression o CPI.
Il CPM (impression) si ottiene dividendo il costo della campagna pubblicitaria (o di un annuncio) per il numero totale di impression servite dall’ad server per quella campagna (o annuncio) e, quindi, moltiplicando il risultato per mille.
Il CPM è la modalità di acquisto tipica delle campagne di display advertising con obiettivi di awareness. Rappresenta, infatti, un modello di investimento pubblicitario che si basa sull’esposizione (Pay-Per-View), ossia sul numero di esposizioni veicolate, e non sui risultati dell’esposizione e dunque sul numero di risposte generate dall’azione pubblicitaria (Pay-Per-Performance), come invece avviene per le campagne che si basano su parametri quali Cost Per Click (CPC), Cost Per Acquisition (CPA), Cost Per Lead (CPL), Cost Per Action (CPA).
L’espressione cost per mille può riferirsi anche ai contatti generati da un mezzo, veicolo o singolo annuncio pubblicitario e, in tal caso, il CPM esprime il costo che l’inserzionista deve sostenere per raggiungere mille persone con il proprio messaggio promozionale o pubblicitario. Si determina dividendo il costo della campagna pubblicitaria (o di un annuncio) per il numero di contatti raggiunti (costo per contatto lordo) o per il numero di persone contattate appartenenti al target (costo per contatto netto) e, infine, moltiplicando il risultato per mille.


BRAND AWARENESS:
Brand awareness: identifica il grado di conoscenza della marca da parte del pubblico. Si esprime con la percentuale di consumatori appartenenti al target group che ricorda la marca senza bisogno di uno stimolo
verbale o visivo (ricordo spontaneo) o che la riconosce dopo essere stata sottoposta a uno stimolo (ricordo aiutato).
La notorietà di marca è stata variamente definita, ma nel senso più ampio include diversi indicatori, misurabili attraverso indagini a campione o analisi di mercato, che vengono impiegati per valutare l’effettiva capacità del consumatore di riconoscere un brand, richiamarlo alla memoria, identificarlo in modo corretto per quanto riguarda la categoria merceologica, la sua immagine o il suo posizionamento.
Gli indicatori di brand awareness
La notorietà di marca può declinarsi in notorietà spontanea (unaided brand awareness) e notorietà sollecitata (assisted brand awareness). Nel primo caso, viene chiesto all’intervistato di citare le marche che conosce in un dato settore di mercato, anche solo per averle sentite nominare; nel secondo caso, invece, viene sottoposto all’intervistato un elenco di marche fra le quali scegliere. L’insieme di notorietà spontanea e notorietà sollecitata di una marca forma la notorietà totale di marca (global brand awareness).
Nell’ambito della notorietà spontanea l’indicatore più importante è la Top of Mind o TOM awareness, che corrisponde alla prima marca citata dal consumatore con riferimento ad una certa classe di prodotti. La TOM può essere considerata come la forma di notorietà più vicina all’intenzione d’acquisto del consumatore e come quella più strettamente correlata al valore di marca (brand equity).
In particolare, la propensione all’acquisto del consumatore può essere valutata attraverso la salienza di marca (brand saliency). Si tratta di un indicatore che esprime il rapporto tra TOM e notorietà spontanea; di conseguenza, più una marca è ben classificata nella graduatoria delle indicazioni spontanee del consumatore, più la sua salienza è elevata.
La piramide della brand awareness di Aaker
La piramide della notorietà di marca è un metodo utilizzato per raccogliere e catalogare i dati di ricordo rilevati tramite tracking study e altre ricerche di mercato. La piramide è suddivisa in quattro livelli sulla base del grado di memorizzazione della marca da parte del consumatore: si va dal livello più basso, Unaware of a Brand (l’intervistato non cita la marca, né spontaneamente, né su sollecitazione), all’apice della notorietà, ossia la TOM awareness, passando per la brand recognition (l’intervistato riconosce la marca su sollecitazione) e la brand recall (l’intervistato cita la marca spontaneamente). Vedi le apposite voci per approfondimenti sul tema.


GRP:
GRP (Gross Rating Point): indice della pressione pubblicitaria esercitata da un mezzo o veicolo pubblicitario sul target group. È dato dal prodotto tra la copertura ottenuta dal mezzo o veicolo e la frequenza media di esposizione. Più di frequente, si esprime come rapporto percentuale tra il numero di contatti lordi realizzati da un mezzo o veicolo con riferimento a un dato target e l’entità stessa del target.
GRP = Copertura x Frequenza media
In alternativa,
GRP = Contatti lordi / Entità del Target
Si tratta di un’unità convenzionale di misura tradizionalmente impiegata nella pianificazione, nell’acquisto e nella valutazione di campagne pubblicitarie veicolate sui mass media (in origine, concepita per le campagne televisive). Questa metrica di misurazione dell’esposizione pubblicitaria è oggi adottata anche per le campagne di display advertising (in particolar modo, per quelle di video advertising).
Il GRP si rivela particolarmente utile quando occorre confrontare le performance di mezzi o veicoli diversi rispetto a un determinato target group. Il GRP, infatti, misura la forza di una campagna pubblicitaria, ossia la quantità di comunicazione prodotta da un piano mezzi rispetto a un determinato target group, sia in assoluto sia in rapporto con le campagne dei concorrenti.
Da evidenziare come dal GRP derivi il CPG (Cost Per GRP) che rappresenta un KPI di efficienza utilizzato per valutare l’economicità di un piano media o di un singolo mezzo o veicolo pubblicitario. Il CPG è il costo sostenuto dall’inserzionista per ogni GRP sviluppato dalla campagna pubblicitaria sul target group.
Le formule di calcolo del GRP
Nella sua formulazione classica, come abbiamo visto, il GRP è il prodotto tra copertura (la percentuale delle persone in target effettivamente raggiunta) e frequenza (quante volte in media ogni individuo in target è esposto, o potenzialmente esposto, al messaggio pubblicitario). Più nel dettaglio:
– Si parla di copertura (reach), solitamente con riferimento alla copertura netta che indica il numero di individui appartenenti al target group che sono stati esposti almeno una volta alla comunicazione pubblicitaria in un dato intervallo temporale. Si esprime generalmente come rapporto percentuale tra i contatti netti (al netto, cioè delle duplicazioni) generati dalla campagna e l’entità del target preso come obiettivo.
Net Reach = ( Contatti Netti / Entità del Target ) x 100
– Si parla di frequenza (frequency), solitamente con riferimento alla frequenza media o OTS (Opportunity To See) che esprime il numero medio di volte che il pubblico è esposto (o potenzialmente esposto) alla comunicazione pubblicitaria. Si determina in base al rapporto fra contatti lordi e contatti netti generati dalla campagna.
OTS = contatti lordi / contatti netti
È evidente che copertura e frequenza possono essere determinate anche in rapporto ai GRP, nel qual caso la reach risulta dal rapporto fra i GRPs generati dalla campagna e la frequenza media; viceversa, la frequenza media si ottiene dividendo i GRPs per la Reach.
A sua volta, il GRP può essere determinato utilizzando le formule di copertura e frequenza. Si ottiene così una formula semplificata (per l’eliminazione dei fattori comuni del numeratore e del denominatore) per calcolare i GRP che viene spesso impiegata per la misurazione di campagne cross-mediali. Di seguito, i passaggi della trasformazione partendo dalla formula classica:
GRP = Net Reach x OTS
GRP = (Contatti Netti / Entità del Target) x 100 x (Contatti Lordi / Contatti Netti)
GRP = (Contatti Lordi / Entità del Target) x 100
Come si calcola il GRP nelle campagne pubblicitarie online
Come accennato, il GRP è un’unità di misura adottata anche per la misurazione delle campagne online. Il digital GRP misura la quantità di comunicazione prodotta da una campagna di display advertising rispetto a un determinato target group in un determinato periodo di tempo. È dato, anche in questo caso, dal prodotto tra la copertura ottenuta e la frequenza media, laddove però tali parametri, mutuati dal processo di pianificazione delle campagne pubblicitarie sui media tradizionali, si determinano ricorrendo alle specifiche metriche di misurazione dell’esposizione pubblicitaria in Rete.

Net Reach = (Unique Viewers / Target Audience) x 100
OTS = Impressions / Unique Viewers
Digital GRP = (Impression / Target Audience) x 100.
Nella sua espressione semplificata, dunque, il digital GRP si esprime nel rapporto percentuale tra il numero complessivo di impression generate dalla campagna con riferimento a un dato target e l’entità stessa del target.


FREQUENZA:
Si parla di frequenza, nell’ambito del media planning, solitamente con riferimento alla frequenza media che indica il numero medio di volte in cui gli individui appartenenti al target group hanno la possibilità di essere esposti a un messaggio o contattati da un medium nel corso di una campagna pubblicitaria. Si determina in base al rapporto fra contatti lordi e contatti netti e si esprime, di solito, in relazione a un periodo di tempo.
La frequenza media è anche nota con l’acronimo OTS (opportunity to see), in ragione del fatto che non vi è certezza di esposizione al medium: esprime, cioè, solo la possibilità, o meglio la probabilità, che gli appartenenti al target vengano raggiunti dal messaggio pubblicitario. Così, ad esempio, nel mezzo televisivo le OTS rappresentano le occasioni in cui le persone vedono lo spot (o potrebbero vederlo perché la tv è accesa) in relazione al periodo di tempo esaminato.
Copertura e frequenza sono indicatori fondamentali che consentono di valutare l’efficacia di un piano mezzi, tanto ex-ante (pre-evaluation) quanto ex-post (post-evaluation). Per approfondimenti di carattere generale sul tema dell’efficacia pubblicitaria si rimanda all’apposita voce.
Viene definita frequenza efficace (effective frequency) il numero medio di esposizioni a un medium che si ritengono necessarie per ottenere una specifica risposta da parte degli individui contattati. In linea di massima, tutti coloro che vengono raggiunti un numero di volte che è di molto inferiore o superiore a quello indicato come frequenza efficace rappresentano contatti sprecati: o non si raggiunge una soglia di attenzione sufficiente per diffondere il messaggio o si crea disinteresse in seguito alla sovraesposizione all’annuncio.
Per determinare la classe di frequenza che può considerarsi efficace, tipicamente si ricorre alla distribuzione di frequenza, ossia alla ripartizione dei contatti in relazione al numero di esposizioni al messaggio pubblicitario: numero di persone raggiunte solo una volta, solo due volte, e così via.







CLICK TROUGHT RATE:
Click-Through Rate (CTR): è il rapporto fra il numero dei click generati da un annuncio e il numero delle volte in cui l’annuncio stesso è stato visto.
Più precisamente, il Click-Through Rate indica la percentuale di click generati da un annuncio (banner o link sponsorizzato) in rapporto alle impression servite dall’ad server per quello stesso annuncio.
Il Click-Through Rate è una misura dell’efficacia della comunicazione pubblicitaria. Altri importanti indicatori impiegati per valutare l’efficacia delle campagne di direct marketing sono – rispettivamente in termini di risposta cognitiva, affettiva e comportamentale – il tasso di risposta (redemption), il tasso di conversione (conversion rate), l’ordine (order) e la prova d’acquisto (trial). Per maggiori approfondimenti si rimanda alla voce Email marketing.
I principali indicatori di costo utilizzati per valutare l’economicità (e dunque l’efficienza) delle campagne online sono: Cost Per Click (CPC), Cost Per Acquisition (CPA), Cost Per Lead (CPL), Cost Per Action (CPA), ecc.


AD IMPRESSION:
Ad Impression: numero totale di visualizzazioni di un annuncio pubblicitario servite da un ad server a un utente in un dato intervallo temporale.
L’ Ad impression è un indicatore di base dell’esposizione pubblicitaria in Rete che viene valutato nel corso della pianificazione di campagne di display advertising. Nella modalità d’acquisto di spazi pubblicitari detta pay per impression l’inserzionista paga ogni volta che il suo annuncio viene visualizzato da un utente, indipendentemente dai clic sull’annuncio stesso. L’ unità di misura adottata non è il Cost Per Impression (CPI), ma il Cost Per Mille (CPM), cioè il costo per migliaia di impression.
Il CPM rappresenta un modello di investimento pubblicitario che si basa sull’esposizione (Pay-Per-View), ossia sul numero di esposizioni veicolate, e non sui risultati dell’esposizione e dunque sul numero di risposte generate dall’azione pubblicitaria (Pay-Per-Performance), come invece avviene per le campagne che si basano su parametri quali Cost Per Click (CPC), Cost Per Acquisition (CPA), Cost Per Lead (CPL), Cost Per Action (CPA). Si rimanda alla voce Display advertising per approfondimenti.
Dal concetto di impression a quello di inventory
Si definisce ad inventory l’offerta editoriale e di spazi pubblicitari che un editore (publisher) mette a disposizione degli inserzionisti pubblicitari (advertiser) per il collocamento di campagne di display advertising. Il suo valore dipende dalla quantità e dalla qualità delle ad impression che la compongono.
La disponibilità teorica del bacino di impression erogabili agli inserzionisti, di norma, viene stimata dall’ad server sulla base del traffico generato dal sito web, o dal network di siti web del publisher, nel periodo precedente di erogazione. La qualità di ogni singola ad impression viene, invece, valutata tenendo conto di diversi parametri: la posizione che lo spazio pubblicitario occupa all’interno del sito/pagina web, la dimensione e il formato dell’annuncio, i criteri di targetizzazione dell’audience adottati. Le ad impression che rispondono meglio ai criteri sopra descritti confluiscono nella premium inventory, che rappresenta il bacino di ad impression di maggiore valore del publisher. La negoziazione e la vendita di inventory premium viene gestita, in larga parte, dai venditori della concessionaria pubblicitaria attraverso trattative dirette con centri media e clienti e, in minore misura, mediante l’impiego di piattaforme tecnologiche automatizzate; in quest’ultimo caso, l’acquisto di premium inventory è, solitamente, frutto di negoziazioni programmatiche (programmatic buying and selling) condotte in ambienti di private ad exchange.


AD EXCHANGE:
L’ad exchange è la piattaforma tecnologica utilizzata per l’automazione delle campagne di display advertising e la loro gestione in tempo reale sotto diversi aspetti, come il targeting, il planning, il buying e la delivery degli annunci pubblicitari.
Gli ad exchange operano nell’ecosistema del programmatic buying and selling in maniera simile alle piattaforme di trading utilizzate nei mercati borsistici; si configurano, infatti, come open marketplace attraverso i quali si realizza lo scambio fra domanda (agenzie e inserzionisti) e offerta (concessionarie ed editori) nella compravendita in tempo reale di spazi pubblicitari online.
L’acquisto di ad inventory in modalità programmatica viene effettuato impression per impression, laddove ogni singola impression immessa nella piattaforma di ad exchange viene valutata in base alle informazioni demografiche, comportamentali e contestuali ad essa associate, prima di essere assegnata, tipicamente attraverso un meccanismo di offerta ad asta in tempo reale (real time bidding o RTB), all’inserzionista che presenta l’offerta più alta (il quale, in genere, paga l’impression un importo equivalente alla seconda offerta più alta dell’asta).
L’asta può essere aperta a tutti gli advertiser che accedono alla piattaforma (open ad exchange), oppure a numero chiuso su invito del publisher (private ad exchange); in entrambi i casi, sono oggetto di negoziazione, per lo più, inventory non garantite e inventory invendute; tuttavia, nel caso di negoziazioni in ambienti privati, gli advertiser possono beneficiare di una priorità sulla chiamata per l’acquisto di una determinata ad impression (first look). L’ad exchange, inoltre, rende possibili anche forme di negoziazione dirette tra buyer e seller, come i programmatic deal, che consentono all’advertiser di acquistare, in base ad un prezzo fisso pre-negoziato, una quota delle inventory garantite o delle inventory premium del publisher.
Per accedere a uno o più ad exchange, i publisher utilizzano le piattaforme di selling (supply side platform o SSP), attraverso le quali possono presentare le richieste di offerta (bid request) che contengono tutte le principali informazioni inerenti agli spazi pubblicitari proposti: il posizionamento e il formato, la tipologia di banner erogabile, i prezzi minimi di vendita (floor price); l’URL della pagina web che ospita lo spazio pubblicitario non rientra, in genere, tra le informazioni a disposizione degli inserzionisti che partecipano a una open auction (l’inserzionista, solo nel momento in cui si aggiudica l’asta, scopre dove l’annuncio è stato pubblicato). Dal lato della domanda, invece, gli advertiser si avvalgono delle piattaforme di buying (demand side platform o DSP), per presentare offerte d’asta (bid) per le ad impression selezionate secondo i criteri prefissati nell’ad exchange: target, budget e timing della campagna, il prezzo massimo che si intende spendere per singola impression, le sezioni di maggiore interesse di un sito web, ecc.


SSP:
Nell’ecosistema del Programmatic Buying & Selling, la Supply Side Platform (SSP) è la piattaforma tecnologica connessa all’ad exchange che consente ai media seller (concessionarie ed editori) di vendere la propria ad inventory in tempo reale.
Nelle negoziazioni programmatiche in Real Time Bidding o RTB, la SSP permette ai publisher di presentare delle richieste di offerta (bid request) che contengono tutte le principali informazioni inerenti agli spazi pubblicitari proposti sugli ad exchange: il posizionamento e il formato, la tipologia di banner erogabile, i prezzi minimi di vendita (floor price); l’URL della pagina web che ospita lo spazio pubblicitario non rientra sempre tra le informazioni a disposizione degli inserzionisti: nella modalità di offerta anonima, tipica nelle open auction, l’inserzionista scopre dove l’annuncio è stato pubblicato solo nel momento in cui si aggiudica l’asta.


CHURN RATE:
Churn rate: il tasso di abbandono o tasso di defezione esprime la percentuale di clienti che ha abbandonato un servizio in un dato periodo di tempo rispetto al numero totale di clienti che ne ha usufruito nello stesso periodo.
Il churn rate è inversamente proporzionale al retention rate: quanto più basso è il churn rate, tanto più alto è il retention rate e viceversa. Incrementare il tasso di fedeltà della clientela, minimizzando il tasso di abbandono, è l’obiettivo primario dell’impresa orientata al marketing. A tal fine, l’impresa si avvale solitamente dell’impiego di attività di marketing e promozione: essa, ad esempio, può ricorrere ad incentivi e sconti per indurre il cliente alla ripetizione dell’acquisto, o alla prova di nuovi prodotti.
La churn analysis è un’analisi previsionale che consente di individuare i clienti che presentano una maggiore probabilità di passare alla concorrenza, al fine di intervenire in anticipo ed evitarne la migrazione. Grazie all’analisi delle transazioni e delle altre informazioni disponibili sulla clientela (elaborate con l’ausilio di sistemi di CRM), l’impresa può monitorare il grado di soddisfazione del cliente (customer satisfaction) e pianificare azioni dirette ad aumentarlo, nell’intento di evitare che i propri clienti la abbandonino. Si rimanda alla voce customer retention per maggiori approfondimenti.




MARKETING ONE-TO-ONE:
Marketing one-to-one: approccio produttivo e commerciale che si fonda sulla differenziazione dell’offerta in base alle specifiche esigenze del singolo consumatore. Prevede, in genere, varianti e adattamenti di un’offerta principale (riguardanti il prodotto, prezzo, l’assistenza post-vendita, ecc.) come conseguenza di un rapporto diretto fra consumatore e impresa.
Il marketing one-to-one presuppone un approccio al mercato basato sulla relazione personale e diretta tra impresa e consumatore; essa, infatti, si fonda sul modello del marketing relazionale che, grazie anche al supporto delle tecnologie informatiche e alle potenzialità d’interazione, tende a focalizzare l’attenzione dell’impresa sul cliente e sul soddisfacimento dei suoi bisogni. Il marketing one-to-one, pertanto, richiede un continuo sforzo di comprensione dei bisogni e desideri del cliente e l’abilità di adattarsi rapidamente a cambiamenti nel suo comportamento di acquisto e di consumo; ciò implica la capacità di acquisizione ed elaborazione di grandi quantità di dati, resa possibile dall’impiego di tecnologie informatiche e digitali sempre più sofisticate. Le tecnologie digitali, in particolare, consentono di gestire in maniera più efficace le informazioni sui gusti e le esigenze dei clienti permettendo alti livelli di personalizzazione del prodotto a costi molto inferiori rispetto al business off-line.


AIDA:
AIDA: modello di funzionamento della pubblicità, così denominato sulla base delle iniziali delle parole che caratterizzano le sue quattro fasi, ossia Attenzione, Interesse, Desiderio, Azione. Questi step rappresentano diversi momenti attraverso cui passa il consumatore, dallo stadio iniziale in cui viene a conoscenza del prodotto o brand, a quello in cui passa all’azione (acquisto, prova, richiesta di informazioni, ecc.).
La semplicità del modello AIDA è alla base del suo successo: tale modello vede la pubblicità come una forza che deve indurre le persone all’azione attraverso una successione di fasi, tutte necessarie affinché il messaggio pubblicitario abbia effetto e raggiunga il suo scopo. Un annuncio pubblicitario per essere efficace deve dunque attirare l’attenzione, suscitare interesse, provocare il desiderio e indurre all’azione. Più nel dettaglio,
– Attenzione: è lo stadio iniziale del modello AIDA, la prima fase in cui si manifesta l’influenza della pubblicità; prevede la consapevolezza dell’esistenza del servizio o del prodotto in questione. In termini di comunicazione, la fase iniziale corrisponde alla creazione della awareness, o notorietà di marca e/o di prodotto, nella testa del consumatore.
– Interesse: è la fase in cui i consumatori manifestano un interesse attivo nei confronti del prodotto; attraverso la ricerca di informazioni i consumatori vengono a conoscenza delle qualità e delle caratteristiche del prodotto e maturano un atteggiamento favorevole nei confronti del prodotto medesimo.
– Desiderio: è lo stadio in cui viene espressa una preferenza rispetto a tutte le altre possibili alternative e con essa si manifesta il desiderio all’azione o l’intenzione di acquisto.
– Azione: è lo stadio finale del modello AIDA nel quale il consumatore compie quella specifica azione, identificata dall’inserzionista quale obiettivo dell’iniziativa pubblicitaria: ad esempio, l’acquisto o la sottoscrizione di una newsletter
AIDA e il modello della gerarchia degli effetti
Negli anni Sessanta Lavidge e Steiner elaborano un modello che presenta, rispetto al modello AIDA, una maggiore completezza e sistematicità. Questo noto modello, spesso definito come “gerarchia degli effetti” o come “Learn-Feel-Do Model” (letteralmente apprendere, provare un sentimento ed agire), pur postulando una successione rigida di fasi proprio come il modello AIDA, ha comunque il merito di ipotizzare un processo significativo per la sfera affettiva e cognitiva come premessa al passaggio all’azione.
In tale modello, infatti, le diverse fasi del processo di convincimento del consumatore vengono messe in relazione con tre dimensioni basiche, cioè cognitiva (conoscenza, comprensione), affettiva (apprezzamento, preferenza) e conativa (convinzione, acquisto), laddove le prime due dimensioni sono determinanti per generare la terza. La risposta del consumatore agli stimoli dell’azione pubblicitario, in particolare, può essere valutata in termini di: percezione e memorizzazione dei contenuti pubblicitari associati a un prodotto o brand (risposta cognitiva); intenzione di acquisto o preferenza per un determinato brand (risposta affettiva); azioni e acquisti (risposta comportamentale).
Sia il modello AIDA che il modello della gerarchia degli effetti, per quanto criticati, soprattutto riguardo alla necessità del passaggio attraverso la suddetta gerarchia, vengono ancora ritenuti sufficientemente validi. Ciò è dimostrato dal fatto che le ricerche per la valutazione dei messaggi pubblicitari si riferiscono a categorie quali: interesse, comprensione, ricordo, memorabilità e così via, facendo appunto l’ipotesi che più forti sono queste caratteristiche maggiore è la qualità pubblicitaria del messaggio e più forte la sua influenza sul consumatore.


JURNEY:
Journey (customer journey o consumer journey): modello di marketing utilizzato per descrivere e analizzare il path to purchase, ossia il percorso che porta il consumatore all’acquisto di un determinato prodotto o servizio; tale percorso ideale viene spesso visualizzato nei suoi momenti chiave attraverso una mappa (customer journey map).
Il consumer journey consiste in un breve documento che descrive le tappe del percorso del potenziale acquirente di un prodotto o servizio, o le illustra visivamente, attraverso i principali punti di contatto con l’azienda. Consente all’impresa di esaminare punti di forza e di debolezza di ogni singolo touch point e di identificare gli strumenti più idonei per ottenere un miglioramento dell’esperienza complessiva maturata nel corso del processo di acquisto e di utilizzo del prodotto.
Le fasi del consumer journey
Il modello del consumer journey prevede quattro fasi, o “battleground”: ogni fase viene considerata come un campo di battaglia dove i brand si trovano a competere continuamente per conquistare l’attenzione e le preferenze del consumatore. Più nel dettaglio, queste fasi sono:
Initial consideration set: è l’insieme dei prodotti o brand, fra l’universo disponibile sul mercato, che un consumatore prende in considerazione all’inizio del processo decisionale. Nello stadio iniziale del journey il consumatore, stimolato da un bisogno o dalla pubblicità, prende coscienza dell’esistenza di una certa categoria di prodotti e comincia a prendere in considerazione un set di prodotti o brand al suo interno.
Active evaluation: il consumatore, dopo aver sviluppato la consapevolezza di ciò che esiste e come viene offerto, confronta caratteristiche e prezzi dei prodotti presi in esame. La ricerca di informazioni, sempre più spesso, avviene in tutte le fasi del journey e persino dopo che il consumatore ha acquistato il prodotto.
Purchase: il momento dell’acquisto rappresenta il conseguimento di un obiettivo fondamentale per l’impresa, ma non la fase conclusiva del processo di convincimento del cliente.
Post-purchase experience: il cliente, dopo aver comprato il prodotto, verifica se le sue aspettative sono state soddisfatte sulla base dell’esperienza d’uso e di consumo e orienta in questo modo le decisioni successive di acquisto. Quando il cliente è soddisfatto si genera il cosiddetto loyalty loop (anello della fedeltà), ossia si attiva il circuito virtuoso dell’acquisto. Da notare che un cliente soddisfatto non solo riacquista il prodotto nel tempo, ma è anche propenso a diffonderne un’immagine positiva attraverso il passaparola (vedi brand advocate).
L’evoluzione del modello: dal funnel al journey
Il concetto di consumer journey è stato menzionato per la prima volta in un articolo pubblicato nel 2009 sulla prestigiosa rivista McKinsey Quarterly. Gli autori mettono in discussione il modello del purchase funnel, tradizionalmente impiegato per descrivere il comportamento d’acquisto del consumatore, opponendogli un nuovo approccio, definito consumer decision journey, che, a loro avviso, si presterebbe meglio a descrivere la complessità del percorso decisionale del consumatore nell’era digitale e dei social network.
Prima di Internet, l’approccio al mercato dell’impresa era incentrato su strategie di tipo push, dettate da una logica di comunicazione tipo broadcasting, basata sul modello one-to-many, proprio della comunicazione di massa (comunicazione unidirezionale che si rivolge a una audience passiva). La funzione attribuita al marketing in tale contesto era, in sostanza, quella di intercettare il consumatore durante il processo di acquisto, attraverso i principali mezzi pubblicitari (televisione, radio, stampa, comunicazione in-store, ecc.), al fine di indirizzarlo verso la scelta di un prodotto specifico. Da qui, l’elaborazione di un modello, come quello del funnel, che vede il path to purchase come un processo lineare e monodirezionale.
Il modello del funnel è stato superato con l’avvento delle nuove tecnologie e con la diffusione di Internet che hanno determinato il passaggio a un nuovo paradigma. L’aumento esponenziale dell’offerta di prodotti e servizi associato all’evoluzione tecnologica, alla frammentazione dei media e alla conseguente moltiplicazione dei touch point tra il consumatore e il brand ha modificato radicalmente sia il comportamento di acquisto del consumatore sia il modo in cui le aziende fanno business. Con l’avvento della Rete e, in particolar modo, del Web 2.0 il consumatore non è più fruitore passivo ma attore attivo e interattivo nel processo d’acquisto, in grado di influenzare le decisioni di acquisto di altri consumatori.
Questo nuovo contesto rende il path to purchase sempre meno rappresentabile come un percorso lineare strutturato in una successione ordinata di fasi. Il processo decisionale nell’era digitale assomiglia, invece, sempre più a un percorso circolare in cui tutte le fasi del journey si influenzano a vicenda e concorrono al raggiungimento del risultato finale. Ciò che conta, in definitiva, è l’esperienza vissuta dal cliente, che si forma attraverso ogni singolo momento della sua interazione con l’azienda.
La customer experience, secondo una nota definizione, è “la reazione interiore e soggettiva del cliente di fronte a qualsiasi contatto diretto o indiretto con un’impresa” (Meyer e Schwager, 2007, Understanding customer experience, Harvard Business Review). Più nel dettaglio, i contatti diretti sono le interazioni dirette che avvengono nel corso dell’acquisto e dell’uso di un prodotto; i contatti indiretti, invece, sono incontri che non avvengano in contesti interpersonali, ma il tramite dei canali di vendita e di comunicazione attivati dall’impresa (pubblicità sui mass media, on-line e nel punto vendita, eventi, comunicati stampa,
ecc.), per il passaparola di terzi (ad esempio, raccomandazioni e recensioni di altri consumatori) o provengono da altri incontri con l’impresa o con il prodotto non programmati dal consumatore.


ZMOT:
ZMOT: acronimo di Zero Moment of Truth. Il momento zero della verità è quello stadio del processo decisionale di acquisto in cui il consumatore, stimolato da un bisogno, raccoglie informazioni in Rete e valuta se acquistare o meno un dato prodotto, prima ancora di entrare in contatto fisico con il prodotto medesimo, ovvero prima di recarsi in un punto vendita.
Il concetto di ZMOT, elaborato da Google nel 2011, è stato menzionato per la prima volta da Jim Lecinsky, autore dell’e-book intitolato Winning the Zero Moment Of Truth, per spiegare quanto i comportamenti di consumo siano sempre più condizionati dai media digitali in generale e dal canale mobile in particolare. L’approccio ZMOT, infatti, viene descritto dall’autore come un’evoluzione, in ottica mobile oriented, del modello di First Moment of Truth (FMOT) elaborato dalla Procter & Gamble (P&G) nel 2005 per descrivere e analizzare il path to purchase, al fine di attivare strategie utili al raggiungimento dei consumatori.
Più nel dettaglio, la modellizzazione del path to purchase proposta da P&G individua due momenti chiave di interazione con il brand o prodotto (definiti momenti di verità), nel processo decisionale del consumatore, successivi allo stimolo all’acquisto:
– First Moment of Truth (FMOT): il primo momento di verità è il momento in cui il potenziale cliente entra in contatto fisico con il prodotto. Consiste in quel lasso di tempo (dai 3 ai 7 secondi) in cui il consumatore si trova davanti allo scaffale e decide quale prodotto comprare tra le varie alternative possibili.
– Second Moment of Truth (SMOT): il secondo momento di verità avviene dopo l’acquisto. Il cliente, dopo aver comprato il prodotto, verifica se le sue aspettative sono state soddisfatte sulla base dell’esperienza d’uso e di consumo e orienta in questo modo le decisioni successive di acquisto.
L’approccio suggerito da Google arricchisce la modellizzazione del FMOT di una nuova fase, lo ZMOT appunto, che anticipa il primo momento di verità: nel momento stesso in cui il consumatore avverte un bisogno o un desiderio, comincia la ricerca di informazioni in Rete su uno specifico prodotto e si formano così le sue convinzioni. Lo ZMOT, dunque, muove dall’assunto che nell’era digitale e dei social network il consumatore si informa online e decide cosa comprare ancor prima di raggiungere il negozio. Ciò senza negare l’importanza degli altri due momenti chiave del percorso decisionale d’acquisto. Il momento zero della verità, che si inserisce tra lo stimolo e il primo momento di verità, è strettamente connesso anche al secondo momento di verità: il cliente è oggi sempre più propenso a condividere le proprie esperienze di acquisto e di consumo attraverso recensioni, rating, feedback, commenti e post pubblicati sui social network. L’esperienza post-acquisto di un utente relativa a un dato prodotto, pertanto, può facilmente diventare lo ZMOT di altri utenti che cercano informazioni in Rete su quel determinato prodotto.


CROSS-SELLING:
Cross selling: strategia di vendita consistente nel proporre al cliente che ha già acquistato un particolare prodotto o servizio anche l’acquisto di altri prodotti o servizi complementari.
La finalità di una strategia di cross selling è quella di consolidare la relazione con il cliente – che spesso acquista più prodotti nello stesso processo d’acquisto – e di accrescerne la profittabilità, aumentando la varietà dei prodotti o servizi acquistati dal cliente tra quelli presenti nel portafoglio prodotti.
Per l’impresa che, operando secondo le logiche di CRM, mira a far crescere il valore della relazione con il cliente esistono due fondamentali strategie commerciali riguardanti la gestione del portafoglio clienti: l’impresa può offrire al cliente prodotti o servizi aggiuntivi rispetto a quanto già acquistato (strategia di cross selling), oppure può proporgli versioni superiori del prodotto o servizio (strategia di up selling, anche se sarebbe più corretto parlare di upgrading).


UP-SELLING:
Up-selling: tecnica di vendita con la quale si incentiva il cliente all’acquisto di una quantità di prodotto maggiore rispetto a quanto inizialmente richiesto: ad esempio, uno sconto per l’acquisto di un più grande flacone di detersivo. Il fine di una strategia di up-selling è chiaramente quello di accrescere la profittabilità del cliente aumentando la sua quota di acquisti sulla categoria.
Il termine up selling viene usato anche per indicare la pratica con la quale il venditore consiglia al cliente l’acquisto di un prodotto di maggior valore rispetto a quanto già acquistato: ad esempio, uno sconto per l’acquisto di una versione più recente di smartphone.
Up-selling e cross-selling sono strategie di marketing molte diffuse fra le imprese che operano secondo le logiche di Customer Relationship Management (CRM). Tipicamente, si ricorre all’analisi del portafoglio clienti non soltanto per individuare i clienti più strategici per l’impresa, ma anche per identificare profili e modelli ricorrenti nell’acquisto di prodotti, così da sviluppare con maggiore efficacia azioni di cross-selling o up-selling.


TRADE MARKETING:
Trade marketing: insieme delle attività di marketing rivolte al trade, ossia agli intermediari commerciali (distributori, grossisti, dettaglianti). Attraverso tali attività, le imprese incoraggiano le aziende della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) ad inserire i propri prodotti in assortimento e a promuoverne le vendite presso i clienti finali; si parla, a tal proposito, della c.d. strategia di sell in.
Spesso nelle imprese è presente una funzione organizzativa specifica, responsabile della gestione e del controllo di tali attività. Ad essa spetta il compito di decidere quali leve promozionali attivare nei riguardi dei canali di distribuzione (vedi approfondimento più in basso sulla trade promotion).
È riconducibile al trade marketing, in particolare, l’attività di negoziazione con il distributore per l’inserimento in assortimento di nuovi prodotti e per il loro posizionamento a scaffale. Le imprese della GDO, infatti, spesso richiedono al produttore un fee di accesso (listing fees) per inserire in assortimento nuovi prodotti e/o contributi promozionali per i prodotti già presenti in assortimento; in molti casi viene riconosciuto alla grande distribuzione anche un compenso aggiuntivo per l’esposizione preferenziale di determinati prodotti. Queste spese che vengono sostenute dal produttore sono comunemente dette trade spending e comprendono i costi sostenuti per predisporre gli strumenti di comunicazione usati nel punto vendita per promuovere il prodotto o per facilitare i venditori nella sua presentazione (campioni, depliant, brochure, ecc.); includono anche le spese effettuate per le attività di promozione e merchandising sul punto vendita (espositori, pannelli promozionali, allestimento di spazi dedicati, acquisto di pubblicità locale, ecc.).
Trade promotion
Le imprese utilizzano diverse leve promozionali per assicurarsi la cooperazione delle aziende di distribuzione, dato il grosso potere che esse hanno acquisito nel rapporto con il mercato (vedi GDO per
approfondimenti). Si parla, in tal caso, di promozioni push, tendenti cioè a “spingere” il prodotto verso i rivenditori, per distinguerle da quelle pull, miranti invece a “tirar fuori” il prodotto dal punto vendita tramite l’acquisto.
I principali obiettivi che un’azione di trade promotion può perseguire sono: ottenere un adeguato spazio espositivo per i nuovi prodotti o dare maggiore visibilità a quelli già presenti nei punti vendita; ottenere una migliore rotazione degli stock per impedire rotture di stock nel ciclo ordine-consegna, ovvero la mancanza del prodotto nel punto vendita; incoraggiare i rivenditori ad acquistare quantità maggiori dei prodotti abituali o a provare nuovi prodotti. A tal fine, i produttori possono concedere al trade uno sconto d’acquisto, ossia uno sconto limitato per ogni unità ordinata in un certo periodo, oppure premi e altri incentivi ottenibili al raggiungimento di prefissati obiettivi, in genere, espressi in termini di volumi di fatturato. Possono poi essere offerti contributi in pubblicità a quei rivenditori che hanno svolto azioni pubblicitarie nei confronti di determinati prodotti.


GDO:
GDO (Grande Distribuzione Organizzata). Insieme di punti vendita gestiti a libero servizio, organizzati su grandi superfici e, generalmente aderenti ad un’organizzazione o a un gruppo che gestisce una serie di punti vendita contrassegnati da una o più insegne commerciali comuni (la c.d. catena distributiva).
Anche nota come moderna distribuzione, la GDO comprende sia le catene di punti vendita caratterizzati dalla gestione unitaria e dall’appartenenza a una medesima proprietà (la c.d. Grande Distribuzione o GD), sia le catene di distribuzione che si costituiscono grazie ad accordi di associazione tra commercianti, come consorzi e cooperative di consumo (la c.d. Distribuzione Organizzata o DO).
Nella grande distribuzione prevalgono le spinte economicistiche e, dunque, la ricerca costante di economie di scala che porta alla standardizzazione di molti aspetti operativi e strutturali dei punti vendita e all’apertura di punti vendita di sempre maggiori dimensioni; nel contesto italiano, tra le principali catene distributive appartenenti al mondo della GD vi sono Carrefour e Esselunga. Nella distribuzione organizzata prevalgono, invece, le spinte solidaristiche: tra le forme tipiche troviamo i Gruppi d’Acquisto, una forma di associazionismo tra dettaglianti, e le Unione Volontarie, che implicano la cooperazione tra grossisti e dettaglianti; costituiscono tipici esempi di DO Coop Italia e Conad.
Il rapporto tra Industria e Distribuzione
La distribuzione moderna ha avuto un notevole sviluppo in Italia da quando è nata negli anni Sessanta con l’obiettivo di eliminare un ricarico nel canale distributivo. Tale sviluppo è avvenuto a scapito della distribuzione tradizionale, nella quale si è registrata una progressiva riduzione dei consumi (in termini di volume) nel tempo; molti dei tradizionali esercizi commerciali di vicinato, infatti, hanno ceduto la propria licenza alle catene distributive o si sono essi stessi trasformati in punti vendita della GDO, modificando il format distributivo, la formula organizzativa e i criteri gestionali. Fino a che la rete distributiva era prevalentemente costituita da piccole imprese a conduzione familiare, tra produzione e distribuzione non esisteva nessun problema di rapporto, anche perché il potere contrattuale era in mano all’industria. Tuttavia, con la crescente concentrazione nel tempo del settore distributivo e il conseguente rafforzamento del potere di mercato delle principali catene distributive, questa situazione muta radicalmente generando uno sbilanciamento del potere contrattuale a favore della GDO nella fase di acquisto dei prodotti. Tale squilibrio si estrinsecherebbe, secondo quanto riportato dall’indagine conoscitiva condotta nel 2010 sulla GDO dall’AGCM, nella frequente imposizione, da parte della grande distribuzione, di condizioni contrattuali ritenute “non eque” dai produttori. Tali condizioni non si esaurirebbero nella definizione del prezzo di acquisto del prodotto e degli sconti di natura commerciale, ma comprenderebbero anche la richiesta di
ingenti importi da versare alle imprese della GDO a titolo di remunerazione dei servizi di distribuzione (listing fees, contributi promozionali, compensi per esposizione preferenziale, per servizi di centrale, ecc.), tutti complessivamente indicati con il termine trade spending.
Tipologie di punti vendita della GDO
Gli esercizi commerciali che ne fanno parte vengono suddivisi in quattro tipologie di formati che si differenziano tra loro per dimensione, ampiezza (numero di prodotti) e profondità (numero di referenze per ogni prodotto): supermercati (superficie di vendita superiore ai 400 mq), ipermercati (superficie superiore ai 2500 mq), libero servizio (superficie compresa tra i 200 e i 400 mq) e discount (superficie compresa tra i 200 e i 1000 mq, ma limitatissima gamma di prodotti).


TONE OF VOICE (TOV):
Tone of voice: letteralmente, è il “tono di voce” che si vuole dare alla comunicazione, in armonia con l’identità di marca; definisce il carattere e la personalità che si vogliono costruire per un prodotto o un brand.
Il tone of voice può essere inteso come quella particolare modalità di presentazione dei vantaggi offerti dal prodotto e dei relativi argomenti che viene identificata come coerente rispetto al prodotto da comunicare: il tono di voce può essere, ad esempio, spiritoso o ironico per uno snack, sensuale o trasgressivo per un profumo, ecc.
Elemento imprescindibile di una copy strategy, dove il tone of voice definisce lo spirito di una campagna pubblicitaria ed è dunque applicabile a tutta la comunicazione pubblicitaria, al di là dei mezzi su cui essa viene veicolata, inclusi i segni utilizzati nei messaggi: il lay-out, il format, il claim, il visual, ecc.
Gli altri elementi caratterizzanti una strategia di comunicazione sono il benefit, la reason why, il target ecc. Si rimanda alla voce copy strategy per approfondimenti.



SPERO DI ESSERTI STATO UTILE
SIMONE TROLLI – MARKETING & CO.

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