IL GLOSSARIO DEL MARKETER
Puoi trovare parole di cui non conosci il significato nel vasto mondo del digitale, quindi ho raccolto per chiunque volesse dare un'occhiata le più utilizzate e potrete leggerle direttamente da qui o richiedermi il file direttamente alla form del mio sito web.
Impression: Il numero di volte in cui le
tue inserzioni sono state visualizzate sullo schermo.
Modalità
di utilizzo:
Le
impression sono una metrica comune usata dal settore del marketing online. Le
impression misurano la frequenza con cui le tue inserzioni sono rimaste
visibili sullo schermo per il pubblico di destinazione.
Le
impression da determinati posizionamenti sono accreditate dal Media Rating
Council (MRC).
Modalità
di calcolo:
Un'impression
viene calcolata in base al numero di volte in cui un'inserzione viene
visualizzata su uno schermo per la prima volta. Esempio: se un'inserzione è
visibile sullo schermo e una persona scorre verso il basso, quindi scorre di
nuovo verso l'alto visualizzando nuovamente la stessa inserzione, l'impression
sarà:
1. Se
un'inserzione è visibile sullo schermo in due momenti diversi dello stesso
giorno per una persona, le impression saranno
2.
Questo metodo di calcolo delle impression dei video è diverso dagli standard
del settore per le inserzioni video. Ad eccezione delle inserzioni su Audience
Network, le impression sono calcolate nello stesso modo per le inserzioni che
contengono immagini o video. Ciò significa che non è necessario iniziare a
riprodurre un video perché venga calcolata l'impression.
In
alcuni casi in cui non è possibile determinare se le inserzioni sono sullo
schermo, ad esempio nei feature phone, le impression vengono conteggiate quando
le inserzioni vengono mostrate sui dispositivi.
Le
impression non vengono conteggiate se provenienti da traffico non valido
rilevato, ad esempio da origini non umane (ad esempio, bot).
Copertura: Il numero di persone che hanno
visualizzato le tue inserzioni almeno una volta. La copertura è diversa dalle
impression, che possono comprendere più visualizzazioni delle tue inserzioni da
parte delle stesse persone.
Questa
metrica è una stima.
Modalità
di utilizzo:
La
copertura ti indica quante persone hanno visto il tuo messaggio durante una
campagna pubblicitaria. Le persone potrebbero non cliccare sempre sulle tue
inserzioni, ma potrebbero interagire con la tua azienda quando vedono il tuo messaggio.
La
copertura può essere influenzata da offerta, budget e targetizzazione del
pubblico.
KPI: COSA SONO E PERCHE’ SONO
IMPORTANTISSIMI
Gli
indicatori chiave di prestazione (Key Performance indicator, KPI) costituiscono
una parte importante delle informazioni necessarie per determinare e spiegare
come un’organizzazione progredisce verso i suoi obiettivi di business e
marketing, tuttavia molte persone sono confuse su ciò che costituisce
esattamente un indicatore chiave di prestazione o KPI.
KPI:
definizione base
Un
indicatore chiave di prestazione è una misura quantificabile che una società
utilizza per determinare in quale misura gli obiettivi prefissati operativi e
strategici vengono raggiunti.
Questo
significa che diverse aziende hanno diversi KPI a seconda dei loro rispettivi
criteri di performance o priorità. Allo stesso tempo, gli indicatori di solito
seguono standard del settore.
C’è
una sottile differenza tra gli indicatori chiave di prestazione e le metriche
di marketing. Un punto importante da ricordare è che i KPI sono metriche di
marketing, ma non tutte le metriche di marketing sono KPI. Un buon manager (ma
anche un professionista o un piccolo imprenditore) deve saper determinare quali
metriche di marketing si qualificano come loro indicatori di prestazione.
Tali
indicatori non devono necessariamente essere di natura finanziaria, ma sono
importanti nell’indirizzare veicoli di marketing per la gestione. Senza questi
indicatori e senza le indicazioni che essi forniscono alle imprese, è quasi
impossibile per loro raggiungere il loro pieno potenziale.
Caratteristiche
dei KPI
I KPI
possono essere stabiliti in modo anche arbitrario ma perchè siano utili è
necessario che soddisfino i seguenti requisiti:
Quantificabilità: i KPI possono essere
presentate sotto forma di numeri.
Praticità: si integrano bene con gli
attuali processi aziendali.
Direzionalità: contribuiscono a determinare
se una società sta migliorando.
Operatività:
possono essere
messi in relazione al contesto pratico per misurare un cambiamento effettivo.
Un
indicatore chiave di prestazione deve essere basato su dati legittimi e fornire
un contesto che richiama gli obiettivi di business. I KPI devono essere
definiti in modo tale che i fattori al di fuori del controllo di una società
non possano interferire con la loro realizzazione.
Un
altro fattore chiave è che abbiano scadenze temporali predeterminate che
dividano il processo analizzato in diversi check-point.
Esempi:
I KPI
di un’organizzazione non corrispondono agli obiettivi specifici
dell’organizzazione stessa.
Ad
esempio, una scuola può avere l’obiettivo che tutti i suoi allievi superino un
corso, ma utilizzare il suo tasso di fallimento come un indicatore KPI per
determinare le proprie performance. D’altra parte, un’azienda può utilizzare la
percentuale di reddito che riceve da clienti ricorrenti come suo KPI.
Altri
esempi di KPI per le imprese includono:
Lo
status dei clienti esistenti;
I
nuovi clienti che hanno ottenuto;
Il
tasso di abbandono dei clienti;
La
segmentazione della clientela per redditività o demografia;
Il
tempo di attesa per gli ordini dei clienti;
La
lunghezza degli stock-out.
Come
scegliere
Le
imprese dovrebbero adottare una serie di passaggi prima di scegliere i migliori
indicatori di prestazione, tra cui:
aver
ben definito i processi di business;
aver
definito i requisiti per i processi di business;
avere
a disposizione misurazioni qualitative e quantitative dei risultati.
aver
determinato le varianti e aver regolato i processi per soddisfare gli obiettivi
a breve termine.
Al
momento di scegliere i giusti indicatori chiave di prestazione, una società
dovrebbe iniziare esaminando i fattori che il management utilizza nella
gestione del business.
Poi è
necessario considerare e stabilire se questi fattori aiutano a valutare il
progresso della società contro le strategie indicate. Permettono anche a coloro
che leggono i rapporti di fare valutazioni simili all’esterno?
Anche
se gli standard del settore sono importanti, le aziende non devono
necessariamente scegliere KPI simili a quelli dei loro colleghi di business. È
più importante invece scoprire quanto gli indicatori siano rilevanti per
l’azienda o la sua unità / divisione.
Non
c’è un numero specifico di KPI di cui un’organizzazione ha bisogno.
In
generale, il numero può essere compreso da quattro a dieci per molti tipi di
aziende, e devono essere cruciali per il successo del business: niente è
importante se tutto è importante. Le aziende dovrebbero anche rivedere i loro
obiettivi e le loro strategie regolarmente e apportare le modifiche appropriate
ai loro indicatori di prestazione.
Gli
indicatori chiave di prestazione sono importanti per un business perché lo
aiutano a concentrarsi su obiettivi comuni e garantire che tali obiettivi rimangano
allineati all’interno dell’organizzazione. Questa attenzione aiuterà il
business a rimanere sul compito e a lavorare su progetti significativi che
aiuteranno a raggiungere gli obiettivi più velocemente.
CPA:
Cost
Per Acquisition (CPA): è il costo unitario sostenuto dall’inserzionista per
ogni conversione ottenuta attraverso un’iniziativa di marketing. Il cost per
acquisition si ottiene dividendo il costo dell’azione pubblicitaria per il
numero di conversioni generate dalla campagna.
Il
cost per acquisition è un indicatore impiegato per valutare l’efficienza di
un’azione pubblicitaria veicolata dai media tradizionali o, più di frequente,
dai new media. Nel digital marketing, in particolare, il cost per acquisition è
utilizzato per la pianificazione e l’acquisto di campagne di display
advertising.
Più
nel dettaglio, per le campagne di direct response i parametri monitorati più di
frequente sono, oltre al cost per acquisition, il Cost Per Click (CPC), il Cost
Per Lead (CPL), il Cost Per Action (CPA), ecc. Per le campagne di brand
awareness, invece, i principali indicatori di costo sono il costo per contatto
(CPC) o per migliaia di contatti (CPM, acronimo di Cost Per Mille; in inglese,
più spesso definito CPT, ossia Cost Per Thousand), il costo per mille
impression (CPM), il costo per GRP (CPG), ecc.
Nell’ambito
del direct marketing, oltre al costo di acquisizione e al costo per contatto si
possono prendere in considerazione anche altri indicatori di efficienza, quali
il costo per ordine o il costo per risposta. I principali parametri impiegati
per misurare l’efficacia delle iniziative di direct marketing, invece, sono –
rispettivamente in termini di risposta cognitiva, affettiva e comportamentale –
il tasso di risposta (redemption), il tasso di conversione (conversion),
l’ordine (order) e la prova d’acquisto (trial).
CPC:
Cost
Per Click (CPC): è il costo unitario sostenuto dall’inserzionista per ogni
click generato da un’inserzione a pagamento. Si ottiene dividendo il costo
dell’azione pubblicitaria per il numero di click generati dalla campagna.
Il
cost per click è una diffusa modalità di pianificazione e acquisto della
pubblicità online; questo modello di investimento pubblicitario è noto anche
con il nome di Pay-Per-Click (PPC), che tipicamente si basa sul click-through.
Presuppone, cioè, che l’utente non solo richieda, tramite il click sul banner o
sul link sponsorizzato, il collegamento alla pagina web dell’inserzionista, ma
anche che abbia effettivamente raggiunto il contenuto richiesto, generando una
visita al sito. Il numero di click generati da una campagna, di norma, è
certificato dall’ad server del publisher.
Il
Cost Per Click, di norma, si applica alle campagne di search advertising, ma è
molto utilizzato anche per quelle di display advertising. Più nel dettaglio,
per le campagne di direct response i parametri monitorati più di frequente
sono, oltre al cost per click, il Cost Per Acquisition (CPA), il Cost Per Lead
(CPL), il Cost Per Action (CPA), ecc. Per le campagne di brand awareness, invece,
i principali indicatori di costo sono il costo per contatto (CPC) o per
migliaia di contatti (CPM, acronimo di Cost Per Mille; in inglese, più spesso
definito CPT, ossia Cost Per Thousand), il costo per mille impression (CPM), il
costo per GRP (CPG), ecc.
CPL:
Cost
Per Lead (CPL): costo corrisposto dall’inserzionista per ogni lead generato
attraverso una’iniziativa di marketing in un dato intervallo temporale.
Il
concetto di lead presuppone che l’utente fornisca all’inserzionista indicazioni
utili a generare vendite (vedi lead per maggiori informazioni).
Dal
cost per lead deriva il Pay Per Lead o PPL, che costituisce una sempre più
diffusa modalità di acquisto di campagne pubblicitarie online. Il cost per lead
rientra in un modello di investimento pubblicitario che non si basa
sull’esposizione, ossia sul numero di esposizioni (impression) veicolate, bensì
sui risultati dell’esposizione e dunque sul numero di risposte generate
dall’azione pubblicitaria.
Allo
stesso modo, il Pay Per Click o PPC, che è la modalità di acquisto tipica dei
motori di ricerca, in cui l’inserzionista paga solo quando l’utente clicca sul
link sponsorizzato; l’acquisto di una campagna PPC avviene, in altri termini,
sostenendo un costo unitario per click through (vedi Cost per click per
approfondimenti).
LEAD E PROSPECT:
Lead:
potenziale acquirente di un dato prodotto o servizio. Si genera un lead quando,
attraverso un’iniziativa di marketing, un’impresa ottiene dall’utente
informazioni utili a stabilire un contatto commerciale, da utilizzare in un
secondo momento per generare un’opportunità di vendita. Nel web, ad esempio,
l’utente che, in risposta a un annuncio pubblicitario, compila un form con i
propri dati personali per essere contattato dall’inserzionista.
Differenza
tra lead e prospect
Nel
sales funnel, modello tradizionalmente usato per descrivere il comportamento
d’acquisto del consumatore, lo status di lead segue quello di prospect. Più nel
dettaglio:
– Il
prospect è un utente che successivamente al primo contatto commerciale è stato
considerato potenzialmente interessato alla proposta commerciale: l’utente ha
espressamente manifestato interesse verso un dato prodotto o servizio, oppure
viene identificato come potenziale acquirente della categoria di prodotto in
base al profilo socio-demografico, psicografico o comportamentale.
– Il
lead è un cliente potenziale che, oltre ad avere manifestato interesse per la
proposta commerciale di una data impresa, ha fornito ad essa anche i propri
dati di contatto (numero di telefono, indirizzo fisico o di posta elettronica,
ecc.), incluso il consenso a ricevere comunicazioni di natura commerciale e
altre informazioni che possono concretamente favorire l’impresa ad avviare una
trattativa commerciale. L’impresa, ottenendo dall’utente il permesso di
comunicare con lui (vedi permission marketing) e grazie alle informazioni da
esso fornite, può dunque avviare una comunicazione diretta e personalizzata,
finalizzata alla formulazione di un’offerta commerciale mirata.
Le
campagne di lead generation
Si
parla specificatamente di lead generation per indicare una serie di attività e
tecniche volte all’acquisizione di contatti qualificati, cioè alla raccolta di
nominativi e riferimenti di
contatto
di individui o imprese potenzialmente interessate all’acquisto di determinati
prodotti o servizi. A tal fine, ci si avvale sia di iniziative di direct
marketing (direct mailing, cold calling, loyalty program, ecc.), che di
campagne di digital marketing (search advertising, e-mail marketing, display
advertising, social media marketing, ecc.), nell’intento di incoraggiare il
numero più elevato possibile di utenti a profilarsi.
Da
evidenziare, dunque, come il marketing abbia un ruolo fondamentale solo nella
parte alta del funnel. La finalità delle campagne di lead generation è,
infatti, quella di raccogliere informazioni che possono essere utilizzate in un
secondo momento dalla forza vendita per accrescere le opportunità di vendita.
In sostanza, tali campagne forniscono all’area vendite ulteriori contatti su
cui concentrare i loro sforzi e quindi un valido supporto commerciale. È
compito della forza vendita trasformare questi contatti qualificati in
potenziali opportunità di vendita, assicurando un follow up capillare e
tempestivo dei lead generati.
Per
l’acquisto delle campagne di lead generation, volte cioè all’acquisizione di
lead, solitamente si paga un costo unitario (Cost Per Lead o CPL) per ogni lead
generato dalla campagna in un dato intervallo temporale. L’impresa
inserzionista può acquisire lead rivolgendosi direttamente ai publisher, che
generalmente si avvalgono di appositi spazi pubblicitari muniti di form per
richiedere ai visitatori informazioni legate ai propri comportamenti di consumo
o alle preferenze d’acquisto; oppure può acquistare dati da agenzie
specializzate nel fornire nominativi, riferimenti di contatto (e altre
informazioni utili ad orientare le attività di marketing) di persone e imprese
potenzialmente interessate all’acquisto di prodotti o servizi proposti dalle
imprese inserzioniste.
In
sintesi, le altre due fasi chiave del processo di lead management
Nell’ambito
del processo di acquisizione e gestione di lead, alla fase di lead generation
seguono quelle di lead qualification e lead nurturing.
La
lead qualification è il processo mediante il quale l’azienda classifica e
seleziona i lead generati con le campagne di marketing, così da concentrare gli
sforzi commerciali sui contatti ritenuti di maggiore interesse. Solitamente,
viene assegnato a ciascun contatto un punteggio (score) e un livello (grade)
per determinarne la qualità, a partire dal profilo ideale del cliente
dell’impresa.
Il
lead nurturing, invece, concerne le iniziative messe in atto dall’impresa dal
momento dell’acquisizione di un lead fino a quello ritenuto più opportuno per
avviare con esso una trattativa commerciale. In questa fase l’azienda “coltiva”
i contatti più promettenti attraverso campagne di direct marketing che inducono
l’utente a sviluppare ulteriormente lo scambio di informazioni con l’impresa.
In genere, per gestire al meglio un lead e renderlo più “caldo” possibile, cioè
per massimizzare le possibilità di trasformarlo in un cliente effettivo, si
ricorre a sconti, offerte personalizzate al fine di incentivare l’acquisto dei
prodotti o servizi nel breve termine. Sono detti hot lead, in particolare, gli
utenti che manifestano un’elevata propensione all’acquisto, la quale viene
misurata secondo criteri propri a ogni azienda.
CRO / CONVERSIONE:
Conversion:
è quella specifica azione che compie l’utente in risposta agli stimoli
trasmessi da un’iniziativa di direct marketing e che rappresenta l’obiettivo
della campagna medesima.
La
conversion esprime il completamento con successo di un processo (che prevede
più iniziative di marketing) volto a indurre l’utente a compiere una
determinata azione, ad esempio, l’acquisto di un prodotto, la sottoscrizione di
una newsletter, il download di un documento, ecc.
Può
esprimersi in termini assoluti o percentuali. Le conversions sono una misura
del numero totale di operazioni (conversioni) effettuate con successo in un
dato intervallo temporale; il tasso di conversione (conversion rate o CR) può
essere definito in modo generico come la percentuale di visitatori unici che ha
portato a termine con successo l’operazione promossa dalla campagna.
Il
conversion rate è un indicatore di performance impiegato per valutare
l’efficacia delle campagne di direct marketing. Il tasso di conversione, che
può essere espresso attraverso formule diverse in funzione degli obiettivi
della campagna, si caratterizza per il fatto di mettere in relazione le
risposte ottenute dall’utente in tempi e fasi diverse del processo di direct
marketing. Nel digital marketing, il conversion rate solitamente si esprime
come rapporto tra il numero di conversioni effettuate e il numero di accessi al
sito (o utenti unici o impression servite) in un certo periodo di tempo
REDEMPTION:
Redemption:
nell’ambito del direct marketing, indica la percentuale di risposte ottenute in
rapporto ai contatti attivati (tasso di risposta); quando espressa in valore
assoluto, indica il numero totale di risposte pervenute su un’iniziativa di
direct marketing in un determinato periodo di tempo.
Rientra
tra gli indicatori di performance impiegati per valutare l’efficacia di una
campagna di direct marketing. In particolare, i principali parametri utilizzati
per misurare l’efficacia della campagna – rispettivamente in termini di
risposta cognitiva, affettiva e comportamentale – sono il tasso di risposta
(redemption), il tasso di conversione (conversion), l’ordine (order) e la prova
d’acquisto (trial). I principali indicatori di efficienza del direct marketing
sono, invece, il costo per contatto, il costo per risposta e il costo per
ordine.
RETENTION:
Retension
(Customer retention): l’insieme di attività messe in atto da un’impresa per
trattenere i propri clienti nel tempo, ovvero per ridurne al minimo le
defezioni. Nel significato più ampio e generale, indica il mantenimento di
continue relazioni di scambio con i clienti nel lungo termine.
La
customer retention si fonda sull’abilità dell’impresa di costruire relazioni di
qualità con i clienti, in particolar modo quelli che generano maggiori
profitti, nell’intento di mantenerli fedeli e profittevoli nel tempo. Nel
perseguire tale obiettivo, l’impresa si avvale delle tecniche e degli strumenti
del marketing e della promozione (e oggi più che mai dei canali digitali in
ragione delle loro caratteristiche peculiari), che le consentono di stabilire e
sostenere relazioni di tipo personalizzato e interattivo con i propri clienti.
Attraverso
l’analisi delle transazioni e delle altre informazioni disponibili sulla
clientela (elaborate con l’ausilio di sistemi di CRM), l’impresa può monitorare
il grado di soddisfazione del cliente (customer satisfaction) e pianificare
azioni dirette ad aumentarlo, così da favorirne la fidelizzazione: l’impresa
può ricorrere, ad esempio, ad incentivi e sconti per indurre il cliente alla
ripetizione dell’acquisto, o alla prova di nuovi prodotti. Per realizzare la
piena potenzialità di profitti da ciascun cliente, inoltre, l’impresa può
offrire prodotti o servizi aggiuntivi rispetto a quanto già acquistato al
cliente (cross-selling), oppure proporre versioni qualitativamente superiori
del prodotto o servizio inizialmente richiesto (up-selling).
La
customer retention, più in generale, rappresenta un obiettivo di fondamentale
importanza per l’impresa orientata al marketing (marketing oriented), che tende
a perseguire il profitto attraverso il soddisfacimento dei bisogni dei
consumatori e la loro fidelizzazione. Tale orientamento si fonda sul
presupposto che i clienti esistenti siano la chiave del successo di lungo
periodo dell’impresa. Esso deriva sostanzialmente da un triplice ordine di
considerazioni: il costo di acquisizione di nuovi clienti risulta, in genere,
superiore a quello di mantenimento dei clienti attuali; un cliente soddisfatto
è portato a riacquistare, diffonde un’immagine positiva dell’azienda, presta
minore attenzione ai prodotti della concorrenza, è disponibile ad acquistare
nuovi prodotti dell’azienda stessa; un cliente insoddisfatto, di contro, è
portato a diffondere un’immagine negativa dell’azienda – e dei suoi prodotti in
genere – in modo ancora più ampio di quanto non avvenga per la diffusione da
parte di un cliente soddisfatto di un’immagine positiva.
Differenza
tra retention e loyalty
Da
evidenziare come i termini retention e loyalty, talvolta usati come sinonimi,
presentino sfumature diverse: se la loyalty può essere intesa come un
comportamento di riacquisto derivante dal soddisfacimento delle esigenze del
cliente nel tempo, con il termine retention sembrerebbe più opportuno indicare,
in modo più generico, il comportamento di chiunque riacquista dallo stesso
fornitore.
Ciò
non toglie che l’acquisto abituale di un prodotto o brand, solitamente,
costituisce una buona base per l’istaurarsi di una relazione di fiducia, prima,
e di fedeltà, poi, dal momento che il cliente ha avuto tutto il tempo e le
informazioni necessarie per mettere in discussione la sua scelta comparandola
con le alternative sul mercato. In alcuni casi, tuttavia, il riacquisto del
prodotto o servizio potrebbe dipendere anche da un comportamento non voluto del
cliente, ovvero dovuto alla mancanza di alternative, come nei casi di
monopolio, oppure agli alti costi di cambiamento.
Il
customer retention rate (CRR) come indicatore di loyalty
Il
customer retention rate (CRR) è tra gli indicatori più frequentemente
utilizzati nell’analisi della fedeltà della clientela, dal momento che fornisce
una chiara visione del portafoglio clienti o, più di frequente, di una parte di
esso (tipicamente, i clienti che generano i maggiori profitti), relativamente a
uno specifico periodo. Il customer retention rate esprime, infatti, la
percentuale di clienti che continua ad acquistare in un determinato intervallo
di tempo.
Più
nel dettaglio, prendendo a riferimento un dato arco temporale, il customer
retention rate (CRR) è determinato dal rapporto percentuale tra il numero dei
clienti presenti in portafoglio alla fine del periodo esaminato, al netto dei
clienti acquisiti durante tale periodo, e il numero dei clienti presenti in
portafoglio all’inizio del periodo medesimo.
Per
poter valutare anche il valore dei clienti rimasti fedeli all’impresa nel
periodo oggetto di studio, si ricorre, di frequente, al customer retention rate
ponderato che prende in considerazione oltre al numero di clienti anche il
volume di spesa da essi generato nel tempo.
CORPORATE REPUTATION:
Corporate
reputation: considerazione di cui gode un’organizzazione in virtù della sua
capacità di soddisfare le aspettative degli stakeholder nel tempo. Esprime il
giudizio sull’azienda da parte dei suoi pubblici di riferimento, confermato
dalle esperienze dirette degli stakeholder e dalle azioni e dai risultati
ottenuti nel passato dall’organizzazione.
La
corporate reputation può infatti essere concepita come la sintesi di un vasto
insieme di segnali che l’impresa trasmette agli stakeholder nel corso del tempo
con riferimento al suo agire strategico (Nelli, 2012). Gli interlocutori
dell’impresa recepiscono e interpretano questi segnali, presumendone
razionalmente il comportamento futuro; maturano conseguentemente le proprie
aspettative e giungono infine a formulare le proprie decisioni. La coerenza dei
comportamenti dell’impresa con i segnali che ha inviato nel tempo e la
conseguente risposta alle attese formulate dai suoi stakeholder determinano la
formazione della reputazione aziendale.
STAKEHOLDER:
Stakeholder:
individui o gruppi che hanno un interesse legittimo nei confronti dell’impresa
e delle sue attività, passate, presenti e future, e il cui contributo
(volontario o involontario) è essenziale al suo successo (D’Orazio, 2004).
Si
suddividono in stakeholder interni ed esterni all’organizzazione. Nella prima
categoria rientrano azionisti, manager e dipendenti dell’azienda; fanno invece
parte della seconda categoria i clienti e i fornitori, i governi e le
istituzioni, le associazioni imprenditoriali, i sindacati e altri attori
sociali che operano nelle comunità locali.
Clarkson
(1995) – secondo cui sono stakeholder tutte le persone e organizzazioni che
hanno, o si aspettano, proprietà, diritti o interessi nei confronti di una
impresa e delle sue attività – distingue fra:
–
Stakeholder primari, o stakeholder in senso stretto, ossia tutti coloro che
hanno proprietà, diritti, interessi o aspettative nell’attività di un’azienda e
senza il cui sostegno l’organizzazione cesserebbe di esistere: gli investitori
e gli azionisti, i dipendenti, i clienti, i fornitori, ma anche i governi e le
istituzioni che forniscono le infrastrutture, i mercati, le leggi e i
regolamenti.
–
Stakeholder secondari, o stakeholder in senso ampio, cioè persone e
organizzazioni che non sono essenziali per la sopravvivenza dell’azienda, ma
che possono comunque influenzare o essere influenzati in qualche aspetto dei
prodotti, delle operazioni, dei mercati, del settore e dei risultati di
un’impresa; si pensi, ad esempio, all’influenza esercitata da taluni gruppi di
pressione che con la loro attività sono in grado di sensibilizzare e orientare
l’opinione pubblica rispetto all’operato delle imprese.
Il
termine stakeholder richiama (e per certi versi si contrappone idealmente con)
quello di stockholder. Se con quest’ultimo si intende il detentore di titoli
rappresentativi del capitale di rischio dell’impresa, con il termine
stakeholder si indica colui che ha una qualche “posta in gioco” (stake) nel
processo decisionale dell’organizzazione medesima. Il termine si afferma di
pari passo con una teoria aziendale, la cosiddetta stakeholder theory o teoria
degli stakeholder, una strategia manageriale che pone le basi per il
superamento dei paradigmi teorici allora vigenti e, in particolare, quello
della cosiddetta stockholder theory.
Il
management delle relazioni con gli stakeholder
La
stockholder theory, che si sviluppò negli Stati Uniti a partire dagli anni
Cinquanta in un contesto di crescita economica e di fiducia verso le grandi
corporations, può essere sintetizzata attraverso il contributo del suo più
autorevole sostenitore: “vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa, e
cioè quella di impiegare le proprie risorse nello sviluppo di attività
finalizzate ad accrescere i profitti, ovviamente nel rispetto delle regole del
gioco, vale a dire in un mercato aperto, corretto e competitivo.” (Friedman,
1963). Per la teoria degli stockholder sistematizzata da Friedman, dunque, il
management è moralmente responsabile del proprio operato solo nei confronti
degli azionisti.
La
stakeholder theory o teoria dell’impresa basata sul modello degli stakeholder
riesce, invece, a combinare valori etici ed economici nel profilo finalistico
dell’impresa. Le decisioni rilevanti nella gestione delle aziende devono essere
orientate alla creazione di valore per gli azionisti (massimizzazione del
profitto), per i dipendenti, i clienti e i fornitori (vantaggi economici e non)
e per la società in cui opera (attraverso la ricerca di benefici sociali e
ambientali diretti tanto agli stakeholder interni quanto al territorio di
riferimento in generale).
Il
management deve, pertanto, assumersi la propria responsabilità anche nei
confronti delle persone e dei gruppi verso i quali le proprie azioni possono
generare effetti o che possono a loro volta influenzare tali azioni. L’impresa
viene vista come “un insieme complesso di relazioni tra gruppi di interesse con
obiettivi diversi, ognuno dei quali contribuisce alla sua performance e si
aspetta benefici (o almeno di non essere danneggiato senza indennizzo) come
risultato dell’attività aziendale.” (D’Orazio, 2004). In quest’ottica, “il
management ha il compito di mappare e governare questo sistema di relazioni al
fine di creare e distribuire valore” (Freeman, 2010).
Questo
orientamento di management, denominato stakeholder-oriented approach,
presuppone un processo sistematico di dialogo e di coinvolgimento dei
principali interlocutori sociali dell’organizzazione nella formulazione delle
politiche o strategie aziendali. Spetta allo stakeholder marketing alimentare
questo processo per favorire lo sviluppo di un rapporto di favore e di
reciproca comprensione tra l’organizzazione e i suoi principali stakeholder. Perseguono
finalità di stakeholder engagement tutte quelle organizzazioni che prendono in
considerazione i diversi punti di vista degli stakeholder tanto nella propria
attività operativa quanto nella pianificazione strategica.
Il
processo manageriale secondo lo stakeholder approach, più nel dettaglio, muove
da un’attività ricognitiva per poi definire le strategie più opportune di
governo delle relazioni. Per l’identificazione e la segmentazione degli
stakeholder dell’impresa ci si avvale spesso di una mappa percettiva, detta
stakeholder analysis. Sulla base di quest’ultima è possibile isolare il
contributo che ogni singolo stakeholder può portare per migliorare la
situazione di contesto in cui opera l’impresa e valutarlo rispetto a una
specifica politica, attività o iniziativa dell’impresa.
CORPORATE IDENTITY E IMAGE:
Corporate
identity: risultante di una serie di elementi tangibili e intangibili che
caratterizzano l’azienda e portano alla sua riconoscibilità sul mercato, definendone
il ruolo in relazione ai bisogni che vuole soddisfare e ai valori o modelli di
comportamento che intende promuovere.
L’identità
aziendale può essere concepita in una duplice prospettiva: da un punto di vista
concettuale, come una presentazione strategicamente pianificata dall’azienda
per relazionarsi con i suoi principali stakeholder, facendo in modo di generare
effetti positivi in termini di immagine e fiducia nell’organizzazione; oppure
da un punto di vista più operativo, inerente alle modalità attraverso cui
l’impresa presenta sé stessa al proprio pubblico e, in tal caso, può essere
intesa come l’insieme degli elementi osservabili dell’identità di un’impresa
che si manifestano tanto nella presentazione visiva di sé stessa (e che
comprendono nome, logo, colori, slogan, ecc.) quanto nel suo comportamento
pubblico.
Corporate
identity e corporate image
Il
concetto di identità, pur essendo strettamente connesso a quello di immagine,
se ne distingue per la dimensione storica che lo caratterizza: esso si fonda
sui comportamenti e sulle azioni compiute dall’organizzazione nel corso del
tempo e, dunque, implica che vi sia coerenza fra la percezione identitaria che
l’organizzazione ha e costruisce intorno a sé e i comportamenti che questa
mette in atto; alle iniziative di comunicazione, volte a trasmettere agli
interlocutori l’immagine che l’organizzazione vuole dare di sé, devono dunque
corrispondere comportamenti che avvalorino e diano sostanza all’immagine
promossa.
Sarebbe
parziale e riduttivo ritenere la corporate identity una mera “dichiarazione
visiva di chi e cosa è l’impresa e di come vede sé stessa nei confronti del
mondo” (Selam, 1975), dal momento che, come è stato evidenziato da studi più
recenti, l’identità d’impresa si manifesta attraverso multiformi canali e
strumenti di comunicazione che comprendono la performance dell’organizzazione e
dei suoi prodotti, le comunicazioni e il comportamento dei dipendenti, la
comunicazione controllata e il dialogo con gli stakeholder (Balmer, 2001). Nel
modello di analisi proposto da Balmer e Soenen (1999), in particolare, la
corporate identity risulta costituita da tre diverse dimensioni: l’anima,
sintesi dei valori guida, della cultura organizzativa e della storia
dell’azienda; la mente, espressione delle decisioni volontariamente prese
dall’organizzazione in virtù della sua visione, filosofia, strategia o in base
ad altri fattori come le performance dei prodotti e dell’impresa nel suo
complesso, l’identità del settore di appartenenza, l’architettura del brand, lo
stile della
leadership;
la voce, sintesi di tutte le manifestazioni comunicative, volontarie e non,
dell’organizzazione.
BRAND IDENTITY:
La
brand identity può essere intesa sia come l’insieme degli elementi di
riconoscimento del brand (nome, simboli, logo, slogan, jingle, ecc.) che
agevolano il consumatore nell’identificazione distintiva di un’alternativa di
offerta, sia come il complesso dei valori imprenditoriali che contraddistingue
un brand fin dalla nascita e che ne determina l’evoluzione futura; la brand
identity, infatti, riflette l’orientamento e gli obiettivi dell’azienda, oltre
che la personalità e i valori della marca.
Modelli
di analisi della struttura della brand identity
La
brand identity è stata definita come una combinazione unica di associazioni che
l’azienda ambisce a costruire e a mantenere nel tempo. Queste associazioni
supportano la marca e rappresentano la promessa che l’azienda si impegna a
mantenere nei confronti dei consumatori (Aaker, 1996). Secondo l’autore, le
associazioni di marca possono essere classificate secondo quattro prospettive:
– La
marca come prodotto. Le associazioni comprese in questa dimensione della brand
identity riflettono le percezioni riferite al prodotto frutto dello svolgimento
dell’attività caratteristica d’impresa: le caratteristiche e gli attributi del
prodotto, la composizione del portafoglio prodotti dell’impresa, il rapporto
qualità/valore, le principali modalità e occasioni d’uso, le caratteristiche del
target group, il luogo di produzione.
– La
marca come organizzazione. Tale dimensione della brand identity comprende le
associazioni che riflettono le percezioni riferite all’organizzazione, come i
valori e gli orientamenti di fondo legati alla storia e alla cultura
dell’organizzazione. Da tale prospettiva, si prende in considerazione la
filosofia gestionale alla base della strategia imprenditoriale, le connotazioni
istituzionali derivanti dai valori, dalla storia e dalla cultura del personale,
la tipologia di legame con il territorio e con la comunità di riferimento.
– La
marca come persona. Questa dimensione dell’identità caratterizza la marca
attraverso gli attributi di personalità, ossia un insieme di caratteristiche e
di associazioni aventi connotazioni simili a quelle del carattere umano.
Comprende, pertanto, tutti gli elementi riferibili a tratti di personalità
(brand personality) riconosciuti alla marca e a caratteristiche relazionali
emerse nella gestione del rapporto con i clienti.
– La
marca come simbolo. Questa dimensione del sistema dell’identità di marca
riflette la sua identità visiva (visual identity), ossia un insieme coordinato
di simboli e codici di comunicazione che devono essere presenti in tutte le
forme di interazione con il consumatore e che rendono la marca molto più
riconoscibile e semplice da ricordare. Il valore simbolico del brand, inoltre,
deriva anche dalla longevità e dalla storia dell’impresa; rientrano in tale
dimensione, pertanto, anche tutti gli elementi riferibili all’eredità della
marca (brand heritage).
Nel
modello di analisi proposto più di recente da Aaker e Joachimsthaler (2000), la
brand identity viene descritta attraverso tre cerchi concentrici:
– L’
essenza di marca (brand essence), che rappresenta il cerchio più interno della
brand identity, esprime la promessa di fondo fatta ai consumatori. Riflette ciò
che la marca vuole rappresentare per il mercato e che dovrebbe ispirare in modo
coerente e stabile nel tempo ogni sua manifestazione espressiva (Arnold, 1992);
– L’
identità centrale (core identity) è costituita dalle connotazioni di marca più
significative. Quest’ultime riflettono la mission e la strategia di mercato
dell’impresa e sono destinate a restare immutate anche se la marca si estende
in nuovi mercati o attraverso nuovi prodotti;
– L’
identità allargata (extended identity) comprende quegli attributi aggiuntivi
che pur non rientrando nel nucleo centrale dell’identità di marca
contribuiscono a specificarne il significato. Generalmente, tali elementi
possono mutare nel tempo e sono estendibili solo a determinati prodotti e non a
tutta la gamma di prodotti venduti attraverso il brand.
Brand
identity e brand image
Il
concetto di identità deve essere distinto da quello di immagine ad esso legato.
Se il primo appartiene all’area dell’emissione, dal momento che riflette la
volontà degli strateghi di come far percepire la marca all’esterno (Aaker,
1997), il secondo rientra in quella della ricezione, perché pone l’accento su
come un target di consumatori percepisce il brand (Kapferer, 2004). In altri
termini, la brand identity esprime l’immagine che l’azienda vuole dare di sé e
dei propri prodotti ai consumatori e ai vari stakeholder di riferimento, cioè
l’immagine desiderata e, dunque, rappresenta il messaggio dal versante
dell’emittente; l’immagine di marca, invece, è il riflesso dell’identità di
marca presso il pubblico e, pertanto, rappresenta il messaggio dal versante del
ricevente.
CRM:
CRM
(Customer Relationship Management): strategia di business che si avvale
dell’impiego delle nuove tecnologie sia per comprendere e anticipare bisogni e
desideri dei clienti dell’impresa sia per individuare consumatori
potenzialmente interessati all’acquisto dei prodotti o servizi offerti
dall’impresa medesima.
Il CRM
è la traduzione operativa del concetto di marketing relazionale, approccio al
marketing orientato a costruire relazioni a lungo termine con i clienti (anche
noto come customer oriented o marketing oriented). Secondo tale orientamento
l’impresa tende a perseguire il profitto attraverso il soddisfacimento dei
bisogni dei consumatori e la loro fidelizzazione. Analogamente, anche il CRM
persegue le medesime finalità. Esso, infatti, si pone come obiettivo
prioritario quello di gestire il consumatore attraverso un’offerta di prodotti
e servizi personalizzata che ne aumenti il livello di soddisfazione (customer
satisfaction) e, conseguentemente, di fedeltà (customer loyalty).
Secondo
una nota definizione Il CRM può, infatti, essere inteso come un “un processo
integrato e strutturato per la gestione della relazione con la clientela, il
cui scopo è la costruzione di relazioni personalizzate di lungo periodo capaci
di aumentare la soddisfazione dei clienti e, conseguentemente, di aumentare il
valore per il cliente e per l’impresa” (Greenberg, 2000).
Da
tale definizione emerge come tale processo sia finalizzato a sviluppare e
sostenere i rapporti con i clienti esistenti, più che ad acquisirne di nuovi.
Più in generale, il profitto dell’impresa può derivare dall’acquisizione di
nuovi clienti, dall’incremento di redditività dei clienti esistenti e da un
aumento della durata delle relazioni con gli stessi. Il CRM si fonda sul
presupposto che i clienti esistenti siano la chiave del successo di lungo
periodo dell’impresa e quindi si pone come obiettivo prioritario la
fidelizzazione della clientela. Tale orientamento deriva sostanzialmente da un
triplice ordine di considerazioni: il costo di acquisizione di nuovi clienti
risulta, in genere, superiore a quello di mantenimento dei clienti attuali; un
cliente soddisfatto è portato a riacquistare, diffonde un’immagine positiva
dell’azienda, presta minore attenzione ai prodotti della concorrenza, è
disponibile ad acquistare nuovi prodotti dell’azienda stessa; un cliente
insoddisfatto, di contro, è portato a diffondere un’immagine negativa
dell’azienda – e dei suoi prodotti in genere – in modo ancora più ampio di
quanto non avvenga per la diffusione da parte di un cliente soddisfatto di
un’immagine positiva.
Il
processo di CRM
Il CRM
si avvale del contributo delle tecnologie informatiche per gestire le relazioni
con i clienti in base all’analisi delle informazioni che li riguardano. Esso,
infatti, si basa su sofisticati sistemi di gestione tecnologici finalizzati
alla raccolta e all’elaborazione dei dati relativi ai comportamenti di acquisto
e di consumo della clientela. Tali informazioni, solitamente raccolte e
archiviate nel database aziendale, costituiscono la base per lo sviluppo di
relazioni basate sulla fiducia e sulla conoscenza che abbiano valore per il
cliente e per l’impresa. Attraverso l’analisi sistematica dei dati, infatti,
l’impresa può monitorare il grado di soddisfazione del cliente e pianificare
azioni dirette a migliorare i processi di servizio, così da favorirne nel tempo
la fidelizzazione.
L’implementazione
di un processo di CRM, tuttavia, richiede un continuo sforzo di comprensione
dei bisogni e desideri del cliente e l’abilità di adattarsi rapidamente a
cambiamenti nel suo comportamento di acquisto e di consumo. Inoltre, esso
implica l’impiego di forme e canali di comunicazione di tipo narrowcasting che
favoriscono il dialogo con i clienti e, dunque, permettono di recepire meglio i
loro bisogni per fornire valide soluzioni alle loro aspettative.
Un
processo di CRM si articola nelle seguenti fasi: l’inserimento nel database dei
clienti o potenziali clienti; la loro profilazione attraverso l’analisi delle
transazioni o delle altre informazioni disponibili; la creazione di cluster e la
formazione del portafoglio clienti sulla base del loro valore per l’impresa; la
pianificazione delle azioni da attivare per accrescere il valore del
portafoglio clienti e la loro vera e propria esecuzione; la verifica ex post
del raggiungimento degli obiettivi prefissati e l’implementazione del processo.
Da
evidenziare come l’obiettivo prioritario di ogni progetto o programma CRM sia
quello di conservare i clienti che generano maggiore profitto, incrementandone
la redditività nel tempo. Per realizzare la piena potenzialità di profitti da
ciascun cliente, l’impresa può, ad esempio, offrire prodotti o servizi
aggiuntivi
rispetto
a quanto già acquistato al cliente (cross-selling), oppure proporre versioni
qualitativamente superiori del prodotto o servizio inizialmente richiesto
(up-selling). Il CRM, inoltre, si prospetta come un eccellente approccio
gestionale per sviluppare strategie commerciali e di marketing che mirano
all’acquisizione di nuovi clienti.
Il CRM
si avvale dell’impiego delle tecniche e degli strumenti del direct marketing –
e oggi più che mai del digital marketing in ragione delle sue caratteristiche
peculiari – per stabilire e sostenere relazioni di tipo personalizzato e
interattivo con clienti e prospect. Si rimanda alle specifiche voci per approfondimenti.
Dal
CRM tradizionale al Social CRM
Più di
recente, si è diffuso l’uso dell’espressione Social CRM (SCRM) per indicare un
nuovo approccio CRM che abbraccia la dimensione social (social network e User
Generated Content o UGC) per raggiungere i clienti, acquisiti e potenziali, e
per aumentarne il coinvolgimento, in un’ottica relazionale e collaborativa. Il
Social CRM può, infatti, essere definito come “una filosofia e una strategia di
business (supportata da piattaforme tecnologiche, regole di business, processi
e fattori sociali) finalizzata all’engagement del consumatore con lo scopo di
fornire mutuo beneficio; il tutto all’interno di una conversazione
collaborativa in un ambiente di business affidabile e trasparente” (Greenberg,
2009).
Grazie
all’applicazione delle tecnologie e delle infrastrutture del Web 2.0 ai
processi di CRM l’impresa può oggi disporre sia di una più profonda conoscenza
della propria clientela che di nuove modalità di comunicazione, più sociali e
interattive, per mantenere nel tempo i legami con essa. Del resto, sono i
clienti stessi che, quando soddisfatti dei prodotti o servizi acquistati, li
consigliano spontaneamente ai propri conoscenti, innescando così il passaparola
tra i consumatori (vedi brand advocate). Per di più, il consumatore ha oggi a
disposizione una pluralità di canali e strumenti attraverso i quali condividere
con altri utenti le proprie esperienze di acquisto e di consumo: recensioni,
rating, feedback, commenti e post pubblicati sui social network.
FUNNEL:
Funnel:
modello di marketing tradizionalmente impiegato per descrivere e analizzare il
path to purchase, ossia il percorso compiuto dal consumatore nel corso del
processo di acquisto, dal momento della consapevolezza dell’esistenza di un
certo prodotto, all’acquisto del prodotto medesimo.
Il
funnel (letteralmente, imbuto) fornisce una metafora semplice quanto efficace
per rappresentare gli stadi di avanzamento del processo decisionale: il
consumatore, partendo da un elevato numero di brand o prodotti conosciuti,
procede, per fasi successive, a una scrematura progressiva degli stessi fino ad
arrivare alla scelta d’acquisto finale.
Il
modello del purchase funnel (anche noto come marketing funnel o sales funnel o
buying funnel) può essere considerato come un’evoluzione del classico modello
AIDA, che vede la pubblicità come una forza che deve indurre le persone
all’azione attraverso una successione di fasi, tutte necessarie affinché il
messaggio pubblicitario abbia effetto e raggiunga il suo scopo. Il modello del
funnel, in modo analogo, muove dall’assunto che la il marketing e la
comunicazione aumentino la propensione all’acquisto del consumatore generando
nel potenziale acquirente un livello crescente di attenzione e coinvolgimento,
fino ad indurlo alla decisione d’acquisto.
Premesso
che le definizioni possono essere diverse a seconda del modello di business
adottato, l’approccio più noto del funnel, conosciuto come “traditional
funnel”, appare anche quello più articolato, poiché non termina al momento
dell’acquisto ma continua con la fidelizzazione del cliente. Più nel dettaglio,
esso si compone di cinque fasi consecutive:
–
Awareness: è la prima fase in cui si manifesta l’influenza della pubblicità; il
consumatore acquisisce consapevolezza dell’esistenza del prodotto in questione.
In questo stadio, più in generale, il consumatore scopre l’esistenza di una
categoria di prodotto e comincia a prendere in considerazione un set di
prodotti o brand al suo interno.
–
Familiarity: il consumatore, una volta verificate le percezioni sul brand o
prodotto attraverso la raccolta di informazioni (motori di ricerca, recensioni,
passaparola, ecc.) lo inserisce in un ideale “short list”; il brand o prodotto
diviene così “familiare” e quindi riconoscibile per caratteristiche e benefici
nell’ampia gamma di prodotti disponibili sul mercato.
–
Consideration: il consumatore, dopo aver sviluppato la consapevolezza di ciò
che esiste e come viene offerto, confronta caratteristiche e prezzi di un
numero ristretto di prodotti o brand.
– Purchase:
è il momento dell’acquisto; rappresenta il conseguimento di un obiettivo
fondamentale per l’impresa, ma non la fase conclusiva del processo di
convincimento del cliente.
–
Loyalty: il consumatore, dopo aver comprato il prodotto, verifica se le sue
aspettative sono state soddisfatte sulla base dell’esperienza d’uso e di
consumo e orienta in questo modo le decisioni successive di acquisto; un
cliente soddisfatto, in genere, non solo riacquista il prodotto nel tempo, ma è
anche propenso a diffonderne un’immagine positiva attraverso il passaparola
(vedi loyalty).
L’evoluzione
del modello: dal funnel al journey
Per
comprendere appieno il modello del funnel occorre inquadrarlo nel contesto
specifico in cui è maturato. Prima di Internet, l’approccio al mercato
dell’impresa era incentrato su strategie di tipo push, dettate da una logica di
comunicazione tipo broadcasting, basata sul modello one-to-many, proprio della
comunicazione di massa (comunicazione unidirezionale che si rivolge a una
audience passiva). La funzione attribuita al marketing in tale contesto era, in
sostanza, quella di intercettare il consumatore durante il processo di
acquisto, attraverso i principali canali di comunicazione (televisione, radio,
stampa, comunicazione in-store, ecc.), al fine di indirizzarlo verso la scelta
di un prodotto specifico.
Questo
modello, lineare e monodirezionale, è stato superato dall’avvento delle nuove
tecnologie e dalla diffusione di Internet che hanno determinato il passaggio a
un nuovo paradigma. L’aumento esponenziale dell’offerta di prodotti e servizi
associato all’evoluzione tecnologica, alla frammentazione dei media e alla
conseguente moltiplicazione dei touch point tra il consumatore e il brand ha
modificato radicalmente sia il comportamento di acquisto del consumatore sia il
modo in cui le aziende fanno business. Con l’avvento della Rete e, in
particolar modo, del Web 2.0 il consumatore non è più fruitore passivo ma
attore attivo e interattivo nel processo d’acquisto, in grado di influenzare le
decisioni di acquisto di altri consumatori.
Questo
nuovo contesto rende il path to purchase sempre meno rappresentabile come un
percorso lineare strutturato in una successione ordinata di fasi. Il processo
decisionale nell’era digitale assomiglia, invece, sempre più a un processo
circolare in cui tutte le fasi del funnel si influenzano a vicenda e concorrono
al raggiungimento del risultato finale. Ciò che conta, in definitiva, è
l’esperienza vissuta dal cliente, che si forma attraverso ogni singolo momento
della sua interazione con l’azienda. La customer experience, secondo una nota
definizione, è “la reazione interiore e soggettiva del cliente di fronte a
qualsiasi contatto diretto o indiretto con un’impresa” (Meyer e Schwager, 2007,
Understanding customer experience, Harvard Business Review). Più nel dettaglio,
i contatti diretti sono le interazioni dirette che avvengono nel corso
dell’acquisto e dell’uso di un prodotto; i contatti indiretti, invece, sono
incontri che non avvengano in contesti interpersonali, ma il tramite dei canali
di vendita e di comunicazione attivati dall’impresa (pubblicità sui mass media,
on-line e nel punto vendita, eventi, comunicati stampa, ecc.), per il
passaparola di terzi (ad esempio, raccomandazioni e recensioni di altri
consumatori) o provengono da altri incontri con l’impresa o con il prodotto non
programmati dal consumatore.
Il
funnel di conversione
Nel
web marketing, è molto diffusa l’espressione conversion funnel per descrivere
il percorso di conversione dell’utente attraverso i suoi momenti chiave.
Partendo dalla parte più alta dell’imbuto ci sono i prospect, che
successivamente si trasformano in lead e, infine, diventano clienti. Si rimanda
alle specifiche voci per approfondimenti.
Il
funnel di conversione può essere rappresentato anche in termini di:
– Top
of the funnel (TOFU). La parte superiore dell’imbuto di conversione prevede la
consapevolezza del consumatore circa l’esistenza del servizio o del prodotto in
questione. In termini di comunicazione, la fase iniziale corrisponde alla
creazione della awareness, o notorietà di marca e/o di prodotto, nella testa
del consumatore. Per conseguire questo risultato, l’impresa può attivare
campagne pubblicitarie sui mezzi tradizionali (campagne televisive, stampa,
affissioni ecc.) o campagne online (display advertising, social media
marketing, search advertising, ecc.).
–
Middle of the funnel (MOFU). La fase intermedia del funnel è quella in cui il
consumatore, attraverso la ricerca di informazioni, viene a conoscenza delle
qualità e delle caratteristiche del prodotto e valuta se acquistarlo o meno
(dopo aver confrontato prezzi e caratteristiche dei prodotti concorrenti). Tale
fase corrisponde alla creazione di consideration per il brand o prodotto nella
testa del consumatore. In altri termini, l’impresa deve fare in modo che i
propri brand e prodotti facciano parte del consideration-set del potenziale
acquirente; il consideration set è l’insieme dei prodotti o brand, fra
l’universo disponibile sul mercato, che un consumatore prende in considerazione
relativamente ai suoi bisogni.
–
Bottom of the funnel (BOFU). La fase conclusiva del funnel è quella in cui
viene espressa dal consumatore una preferenza circa un dato prodotto rispetto a
tutte le altre possibili alternative e con essa si manifesta l’intenzione di
acquisto. In questa fase, si verifica uno specifico evento di conversione: il
consumatore compie quella specifica azione, identificata dall’inserzionista
quale obiettivo dell’iniziativa pubblicitaria – in risposta agli stimoli
trasmessi dal contenuto pubblicitario: ad esempio, l’atto di acquisto o l’atto
di sottoscrizione di una newsletter.
ADVERTISING:
Advertising:
forma di comunicazione a pagamento che viene commissionata da un soggetto
chiaramente riconoscibile per diffondere attraverso i mezzi di comunicazione la
propria offerta di idee e di prodotti ed influenzare le scelte del pubblico obiettivo
(target) riguardo un dato bene di consumo o modello di comportamento.
Con il
termine advertising (che deriva dal verbo to advertise, cioè avvertire, far
conoscere), solitamente ci si riferisce alla pubblicità tabellare,
pianificabile sui media di massa, quali televisione, radio, stampa, pubblicità
esterna e internet. Nella stragrande maggioranza dei casi l’advertising ha una
finalità economica (pubblicità commerciale), ma può essere anche finalizzato a
conseguire obiettivi di pubblica utilità (pubblicità non commerciale). Quando
si usa la parola pubblicità in senso più generale, cioè per indicare la
conoscenza pubblica di una cosa, una persona o una caratteristica che la
contraddistingue, si usa il termine publicity; a differenza della pubblicità tabellare,
la publicity non rappresenta, in genere, una forma di comunicazione a
pagamento: si pensi ad esempio agli articoli redazionali e ai servizi o
citazioni in programmi televisivi.
Il
digital advertising, in particolare, si suddivide, sulla base delle tipologie
di siti web pianificabili, in display advertising, che comprende diverse forme
di pubblicità espositiva (su portali, siti di news o editoriali, siti
verticali,
social network e blog, siti di e-shopping) e search advertising, in cui rientra
la pubblicità sui motori di ricerca. Tra le forme di digital advertising
maggiormente utilizzate rientrano anche l’email marketing e l’affiliate
marketing. Per approfondimenti si rimanda alla voce digital marketing.
In
funzione degli obiettivi dell’azione pubblicitaria, è possibile suddividere la
pubblicità commerciale in pubblicità istituzionale (corporate advertising) e
pubblicità di prodotto (product advertising). La pubblicità istituzionale viene
utilizzata per promuovere l’operato di organizzazioni pubbliche e private,
persone, modelli di comportamento o di consumo, idee e questioni politiche
inerenti alle organizzazioni, ecc.; se utilizzata per promuovere la posizione
di un’organizzazione su una questione pubblica, si parla più propriamente di
advocacy advertising. Il fine ultimo del corporate advertising è, in estrema
sintesi, quello di creare l’identità di un’impresa (corporate identity) e
favorire un atteggiamento positivo da parte degli stakeholder. La pubblicità di
prodotto serve invece a stimolare la domanda di una categoria di prodotti
(pubblicità pionieristica o informativa), o di un prodotto, brand specifico
(pubblicità competitiva o concorrenziale). La pubblicità pionieristica viene
utilizzata per informare il pubblico dell’esistenza di un nuovo prodotto e, in
particolare, per farne conoscere caratteristiche, usi e vantaggi ai potenziali
acquirenti; ha dunque come scopo quello di creare la domanda nella fase
iniziale del ciclo di vita del prodotto. La pubblicità comparativa viene
utilizzata per persuadere il pubblico a scegliere una determinata marca
rispetto a una concorrente; ha come finalità quella di alimentare una domanda
selettiva in casi di forte concorrenza sul mercato. La pubblicità comparativa,
a sua volta, può declinarsi in diverse forme; le principali sono la pubblicità
di ricordo e la pubblicità di rinforzo. La pubblicità di ricordo rammenta ai
clienti che una certa marca è ancora sul mercato e continua a offrire
determinate caratteristiche, usi e vantaggi, mentre la pubblicità di rinforzo
rassicura i clienti di avere scelto la marca giusta e suggerisce come trarne la
massima soddisfazione.
MIX PROMOZIONALE:
Mix
promozionale (promotional mix). Combinazione di strumenti e approcci di
comunicazione diversi utilizzati sia per accrescere la visibilità dell’impresa
e dei suoi prodotti e per stimolarne l’acquisto sia per creare e consolidare
nel tempo una relazione fiduciaria con la clientela.
Il mix
promozionale attiene alle decisioni e alle azioni associate alla definizione
dei processi di comunicazione pubblicitaria e promozionale e dei mezzi più
opportuni per veicolare un messaggio coerente al target di riferimento
dell’impresa; implica, di conseguenza, la pianificazione e gestione coordinata
di tutte le leve di comunicazione previste dal piano di marketing. Più in
generale, l’espressione mix promozionale viene utilizzata per indicare la leva
del marketing mix costituita dalle comunicazioni di marketing. È per questo che
ormai si parla indifferentemente di mix promozionale (promotional mix) o di mix
comunicazionale (communication mix); più spesso è usata l’espressione mix della
comunicazione integrata di marketing (marketing communications mix) nelle quale
confluiscono le precedenti (Vedi Promozione per approfondimenti).
Il
promotional mix, nella sua versione di base, è composto da: pubblicità
(advertising), promozione delle vendite (sales promotion), vendita personale
(personal selling) e pubbliche relazioni (public relations). Un’impresa può
scegliere di utilizzare una o più leve contemporaneamente. La scelta della
combinazione ottimale delle leve di comunicazione dipende essenzialmente dagli
obiettivi e dalle politiche promozionali dell’impresa, dall’entità del budget
promozionale, dalle caratteristiche del mercato obiettivo e del prodotto e dalle
politiche di canale (politiche push e/o pull).
Se al
momento in cui iniziò a diffondersi il concetto di mix promozionale erano solo
quattro gli strumenti a disposizione dei responsabili marketing, oggi le
imprese possono usufruire di un’ampia gamma di attività e tecniche promozionali
per informare, coinvolgere, influenzare i consumatori e spingerli all’acquisto
dell’offerta aziendale. Viene infatti pienamente riconosciuta la valenza
comunicazionale di molteplici iniziative quali gli eventi, le sponsorizzazioni,
il product placement, il merchandising, il packaging, azioni sul punto vendita,
l’allestimento di temporary shop, ecc. La definizione del mix promozionale
evolve alla luce soprattutto di Internet e dei new media coinvolgendo alcuni
aspetti innovativi, quali il direct marketing e il direct response, il
marketing interattivo, l’e-mail marketing, il social media marketing, il
marketing virale e altre forme di marketing non convenzionale come il guerrilla
marketing, l’ambient marketing ecc.
MEDIA MIX:
Per
media mix si intende l’impiego combinato di mezzi di comunicazione nell’ambito
di un piano mezzi. Concerne l’abilità di adottare strategie di comunicazione
multicanale che permettono di massimizzare il ritorno dell’investimento
pubblicitario (ROI) senza sovrapposizioni o distonie fra i diversi canali di
comunicazione e, dunque, senza dispersione di costi.
Riguarda
tipicamente le decisioni relative alla scelta dei canali attraverso i quali
veicolare il messaggio pubblicitario e, dunque, implica la capacità di
utilizzare i diversi media in funzione delle loro caratteristiche specifiche e
distintive. Il media mix ottimale, in sintesi, descrive quella combinazione di
mezzi e veicoli che permette di conseguire al meglio gli obiettivi di una specifica
campagna pubblicitaria, minimizzando il costo per contatto.
Il
media mix può essere definito anche come combinazione di media comprati (paid
media), media posseduti (owned media) e media guadagnati (earned media). Il
vantaggio di tale modalità di ripartizione, che si presta particolarmente bene
per le campagne online, è quello di poter includere nel media mix non solo gli
spazi pubblicitari che possono essere acquistati secondo le logiche
tradizionali di media buying, ma anche quelli di cui le imprese possono
disporre con costi ridotti o nulli; si pensi, a titolo di esempio, alla
visibilità che deriva dalla presenza sui social media: la pagina su Facebook,
l’account su Twitter, il canale dedicato su Youtube, ecc.
MEDIA PLANING:
Il
media planning è il processo di pianificazione delle campagne pubblicitarie sui
mezzi di comunicazione. Tale attività solitamente viene svolta dal centro media
per conto dell’impresa inserzionista, ma nel caso di imprese di piccole e medie
dimensioni è spesso frutto di accordi diretti dell’impresa con la
concessionaria pubblicitaria o con l’editore.
La
pianificazione media descrive il processo nel quale a fronte di un’offerta
smisurata e trasversale di possibili spazi e investimenti si arriva a
selezionare i mezzi e i veicoli più idonei ai fini del raggiungimento degli
obiettivi di comunicazione di una specifica campagna pubblicitaria, tenuto
conto essenzialmente della strategia media formulata, del budget pubblicitario
stanziato, del target selezionato.
Scopo
primario dell’attività di media planning è l’elaborazione e la realizzazione di
un piano mezzi ottimale per una specifica campagna, in grado di generare la
maggior pressione pubblicitaria possibile con il budget disponibile,
massimizzando la reach e la frequency nelle attività pianificate.
Concretamente,
il processo di media planning implica lo svolgimento delle seguenti attività:
–
l’identificazione del pubblico obiettivo, destinatario della campagna di
comunicazione (target definition);
– la
stima della soglia ottimale di investimento e una prima allocazione delle
risorse fra i principali mezzi di comunicazione (budget setting);
– la
selezione dei mezzi e veicoli più idonei a raggiungere il target media in modo
efficace ed efficiente (channel strategy);
– la
stima dei risultati di comunicazione ottenibili attraverso un ipotesi di piano
mezzi; si cerca, in altri termini, di misurare gli effetti prodotti dai
messaggi pubblicitari ex ante, cioè prima del lancio della campagna, in genere
sulla base di panel socio-demografici (pre-evaluation);
– la
negoziazione e l’acquisto degli spazi pubblicitari (media buying);
– la
realizzazione delle attività operative necessarie per la messa in onda della
campagna, laddove richieste e non svolte da parti terze, e la verifica delle
singole uscite del piano (execution);
– la
misurazione dei risultati conseguiti dalla campagna pubblicitaria
(post-evaluation);
–
l’implementazione del piano (implementation).
DIRECT MARKETING:
Direct
Marketing: sistema interattivo di marketing che utilizza uno o più mezzi di
comunicazione diretti al consumatore per produrre risposte e/o transazioni
misurabili (Direct Marketing Association).
Prevede
l’impiego di canali di comunicazione e di vendita diretti (i cosiddetti canali
di direct marketing) per raggiungere i clienti e comunicare loro informazioni
sui prodotti e sull’organizzazione, così che essi possano poi acquistarli via
posta, telefono o Internet. Questi canali, infatti, permettono all’impresa di
svolgere l’intero processo di vendita interagendo direttamente con il
consumatore finale senza ricorrere a intermediari commerciali (v. canali di
distribuzione).
Nel
corso degli anni ha avuto un forte sviluppo, nell’ambito della distribuzione,
la formula del non-store retailing, cioè un sistema di vendita al dettaglio
che, non facendo uso di punti vendita in sede fissa, utilizza i canali di
marketing diretto per raggiungere direttamente il target group; il direct
marketing rappresenta dunque una formula distributiva, oltre che una modalità
di comunicazione (vedi Mix promozionale)
Le
caratteristiche distintive del marketing diretto
Prerequisito
del direct marketing è la raccolta di dati sui clienti e la loro organizzazione
in un database di marketing (customer database), ovvero in un archivio di
nominativi costituito da una parte anagrafica (dati statici) e da tutte le
ulteriori informazioni raggiungibili sui potenziali interlocutori dell’impresa
(dati dinamici). Grazie al database l’impresa è in grado di leggere e di
interpretare in ottica commerciale le informazioni sul comportamento dei
clienti, rilevate e aggiornate in modo sistematico.
Caratteristica
fondamentale del direct marketing è, infatti, la selettività del messaggio:
l’impresa rivolge la propria comunicazione a un pubblico preselezionato e ben
individuato sulla base delle informazioni estrapolati dal database clienti. Da
questo contatto selettivo e individuale con il cliente deriva la
personalizzazione della comunicazione, che viene il più possibile adattata alla
soddisfazione di precise esigenze individuali (v. marketing one‐to‐one), nonché d’ interattività del processo: il destinatario
dell’azione svolta dall’impresa viene indotto a esprimere una precisa risposta
comportamentale (acquisto del prodotto, richiesta di informazioni aggiuntive,
richiesta di campioni prova o di materiale promozionale). La misurabilità
dell’efficacia dell’azione svolta, ossia la possibilità di misurare
puntualmente la reattività e l’interattività degli utenti a una comunicazione
commerciale, è di conseguenza un preciso plus del direct marketing; le risposte
ottenute attraverso un’iniziativa di marketing diretto rivolta un target
specifico possono infatti essere valutate in termini di redemption, in ragione
cioè del numero di casi in cui il destinatario della comunicazione si è comportato
secondo lo stimolo proposto dal messaggio.
I
canali di direct marketing
Il
direct marketing si caratterizza pertanto per la capacità di raggiungere un
target specifico e di instaurare un dialogo diretto e personalizzato con il
cliente esistente o potenziale (effettuato a distanza, salvo eccezioni), nel
duplice intento di ottenere una risposta immediata e sviluppare un rapporto a
lungo termine (v. marketing relazionale). A tal fine, esso può assumere una
molteplicità di forme: direct mail, marketing su catalogo, telemarketing,
direct-response marketing e marketing on-line.
Seguendo
una classificazione alternativa, basata sui canali di comunicazione e vendita
utilizzati dal direct marketing, si possono invece individuare le seguenti
categorie: vendita diretta (ad esempio, la vendita porta a porta), vendita per
corrispondenza e da catalogo, vendita per telefono (telemarketing), vendita
attraverso l’uso dei media classici (ad es. la televendita) e vendita via
Internet (e-commerce).
Semplificando,
i canali utilizzati dal direct marketing si possono suddividere
fondamentalmente in due macro-categorie:
Vendita
per corrispondenza, da catalogo o per telefono
Il
direct mail è un’azione promozionale che utilizza il servizio postale o altro
servizio di recapito per la distribuzione di un messaggio pubblicitario. Nel
marketing su catalogo, invece, un’organizzazione fornisce un catalogo su cui i
clienti scelgono alcuni prodotti da ordinare successivamente per posta,
telefono o, sempre più frequentemente, Internet. Il telemarketing, infine,
consiste nell’impiego del telefono per interagire e vendere direttamente ai
consumatori.
Pubblicità
a risposta diretta
Il
direct response advertising è una forma pubblicitaria che utilizza media
classici e new media (v. media) per produrre una risposta misurabile, ovvero
per convertire potenziali clienti in clienti effettivi (e per mantenerli tali).
Si verifica quando un’impresa pubblicizza un prodotto e lo rende disponibile
tramite ordinazioni via posta, telefono o Internet.
Se i
canali di comunicazione utilizzati sono quelli classici (stampa, televisione e
radio), solitamente la risposta viene richiesta sotto forma di lettera, coupon
o telefonata. Ad esempio, una pubblicità a mezzo stampa realizzata per
promuovere prodotti che il cliente può comprare compilando un modulo d’ordine
inserito nell’annuncio; oppure uno spot tv che pubblicizza prodotti che possono
essere acquistati chiamando un numero telefonico gratuito e pagando con carta
di credito. Da notare come i media classici consentano di realizzare una
comunicazione interattiva, oltre che mediante l’uso del telefono, attraverso
l’indicazione dell’indirizzo e-mail aziendale o del sito web cui riferirsi.
Altre
forme di rapporto diretto con la clientela riguardano i new media; Internet è
utilizzato da un numero sempre maggiore di imprese come veicolo per la
trasmissione di messaggi che richiedono risposte tipiche del direct response
advertising (ad esempio, l’ e-mail marketing). Inoltre, se alcune imprese usano
i canali digitali, spesso in sinergia con quelli tradizionali, per aumentare le
vendite, altre organizzazioni vendono prodotti esclusivamente attraverso i
canali digitali (v. e-commerce). La vendita al dettaglio online (online
retailing) permette ai consumatori di cercare, confrontare e acquistare
prodotti via Internet; il dettagliante online, proprio come nel caso di quello
tradizionale, si fa carico delle transazioni e di funzioni informative e di
assistenza all’acquisto analoghe, ma a costi molto bassi in virtù dell’assenza
di oneri per le strutture fisiche di vendita.
Nella
pubblicità online, in particolare, si usa l’espressione direct response per
indicare una forma specifica di display advertising che si pone l’obiettivo di
ricevere delle risposte immediatamente misurabili per quantità e per qualità.
Con la classica pubblicità espositiva ha in comune mezzi e diffusione almeno
per quella parte del messaggio che contribuisce a rafforzare l’ immagine e la
notorietà di marca dell’impresa
inserzionista.
La finalità del direct response advertising, tuttavia, non è tanto quella di
pubblicizzare un certo prodotto o servizio, quanto quella di sollecitare una
reazione da parte del destinatario del messaggio; la risposta consiste,
generalmente, in un click sull’annuncio pubblicitario o link sponsorizzato che
rimanda l’utente al sito web dell’inserzionista o a una landing page
appositamente predisposta per il prodotto o servizio promosso.
EMAIL MARKETING:
Email
marketing: forma di marketing diretto che si serve della posta elettronica per
veicolare messaggi, commerciali e non, in modo diretto e personalizzato, al
fine di acquisire nuovi clienti o fidelizzare quelli esistenti.
Per le
aziende i vantaggi dell’ email marketing sono l’efficienza e la convenienza
(quest’ultima soprattutto quando esso viene gestito internamente); le aziende
traggono beneficio dalla capacità di raggiungere rapidamente un pubblico
profilato, a bassi costi. Un ulteriore punto di forza deriva dal fatto che l’
email marketing è regolato da un sistema di opt-in: presuppone cioè
l’autorizzazione ad un’azienda da parte del destinatario all’uso dei propri dati
personali al fine di ricevere informazioni e promozioni su prodotti e servizi.
Il ricorso ad una strategia di richiesta del consenso all’invio di
comunicazioni commerciali (permission marketing) aumenta l’efficacia delle
campagne di email marketing: i messaggi tendono ad avere un tasso di apertura e
lettura più elevato, proprio per il fatto che vengono inviati a una lista di
utenti che hanno dato il proprio consenso a ricevere comunicazioni commerciali.
Le
aziende, d’altra parte, devono sapersi adattarsi alle esigenze dei destinatari
delle campagne per sfruttare al meglio questo strumento di comunicazione,
proponendo soluzioni commerciali il più possibile in linea con il loro profilo
e il loro comportamento di navigazione o di acquisto; è tanto importante saper
scegliere accuratamente la propria promozione quanto modulare la frequenza dei
messaggi, in modo che quest’ultimi non risultino invadenti, inappropriati o di
scarso interesse per il ricevente, in altre parole, a rischio di spam.
L’
email marketing risponde, più in generale, a due diverse finalità. L’azienda si
propone, da un lato, di conseguire obiettivi di vendita (ovvero, generare
conversion in breve tempo), dall’altro, di sviluppare e mantenere i rapporti
con i propri contatti nel tempo, siano essi clienti esistenti o potenziali,
partner, fornitori o i vari altri stakeholder di riferimento. Tra gli strumenti
utili al perseguimento delle suddette finalità vi sono, nel primo caso, le
email pubblicitarie o DEM (Direct Email Marketing) e, nel secondo, le
newsletter. Di seguito, un approfondimento sulle DEM come strumento
pubblicitario.
Le
DEM (Direct Email Marketing o Direct E-Mailing)
Il
principale e più diffuso strumento di email marketing sono le DEM (Direct Email
Marketing o Direct E-Mailing), email pubblicitarie inviate a una lista di
utenti che hanno accettato di ricevere dei messaggi promozionali coerenti con
gli interessi dichiarati.
L’
invio di DEM può essere effettuato sulla base di una lista di destinatari
propria (ovvero, su un database proprietario), oppure con il ricorso a liste
fornite da terzi (editori, agenzie e concessionarie pubblicitarie). Si tratta,
in questo secondo caso, di vere e proprie campagne pubblicitarie che si basano
sull’utilizzo di liste profilate per l’individuazione di nuovi clienti
(prospecting). Secondo una logica prettamente pubblicitaria, solitamente
l’azienda committente paga un costo per ogni invio effettuato; l’unità di
misura di riferimento è Costo Per Mille o CPM.
Tali
campagne sono spesso indirizzate, oltre che agli individui che hanno
espressamente dato la propria disponibilità a ricevere informazioni per
l’acquisto di un determinato prodotto, anche a tutti coloro che
vengono
identificati come potenziali acquirenti di un prodotto o servizio in base al
profilo sociodemografico, di comportamento o di interessi. Integrando i dati
forniti volontariamente dagli utenti con i dati di navigazione degli stessi in
un sistema di CRM o in una piattaforma professionale di email marketing,
infatti, è possibile sviluppare specifici modelli comportamentali, detti
behaviour patterns, in grado di identificare, in maniera dinamica, cluster di
consumatori più ricettivi nei confronti di particolari tipologie di messaggi
pubblicitari o specifiche offerte di prodotto. In tal modo, le aziende riescono
a promuovere proposte pertinenti e personalizzate, implementando così
l’efficacia delle campagne di direct email marketing.
Per
far fronte alla crescente complessità dei programmi di direct emailing, le
aziende sempre più spesso ricorrono all’utilizzo di piattaforme esterne per la
gestione degli invii e per la profilazione delle liste. Da un punto di vista
pratico, l’uso di tali piattaforme tecnologiche permette l’invio di e-mail in
modo automatico, oltre che manuale. I messaggi automatici, che rientrano nella
categoria dei messaggi transazionali, sono spesso usati per offrire servizi
utili al destinatario (come notifiche e avvisi di scadenze), oltre che per
veicolare promozioni mirate. Dal punto di vista, invece, dei risultati, tali
piattaforme prevedono un articolato sistema di reportistica che permette di
tracciare con precisione i comportamenti dell’utente a partire dall’apertura
dell’email.
Metriche
dell’ email marketing
Gli
indicatori più utili e comunemente utilizzati per valutare l’efficacia delle
campagne di direct email marketing sono i seguenti:
–
Delivery rate: esprime la percentuale di email recapitate sul totale di invii
effettuati in un dato periodo di tempo. In formula: delivery rate = (email
delivered*/ email sent) x 100
*Laddove
le email delivered sono le email effettivamente recapitate nella casella di
posta in arrivo (inbox delivered). Si calcolano escludendo dal computo delle
email inviate il numero di quelle errate o non consegnate (bounce) nella
casella di posta a causa di una casella di posta piena o inesistente, di un
indirizzo errato o nel caso di e-mail finita in spam. In formula: email
delivered = email sent – email bounced
–
Bounce rate: esprime la percentuale di mancate consegne sul totale di invii
effettuati in un dato arco di tempo. In formula: (email bounced/ email sent) x
100
– Open
Rate o OR: esprime il numero di volte in cui il messaggio è stato aperto
(opens) rispetto al numero di persone che lo hanno ricevuto. In formula:
(opens/ email delivered) x 100
–
Unique Open rate: esprime il numero di utenti che hanno aperto almeno una volta
il messaggio (unique opens) rispetto al numero di persone che lo hanno
ricevuto. In formula: (unique opens/ email delivered) x 100
–
Click-Through Rate o CTR: esprime il numero di click sui link contenuti nel
messaggio rispetto al numero di persone che lo hanno ricevuto. In formula:
(clicks/ email delivered) x 100
–
Unique Click-Through Rate o UCTR: esprime il numero di utenti che, dopo aver
aperto l’email, hanno cliccato su di un link al suo interno e sono atterrati
nel sito promosso dall’inserzionista rispetto al numero di persone che hanno
ricevuto l’email. In formula: (unique clicks / email delivered) x 100
– Click-To-Open
Rate o CTOR: esprime la percentuale di utenti che, dopo aver aperto l’email,
hanno cliccato su di un link al suo interno e sono atterrati nel sito promosso
dall’inserzionista rispetto al numero di persone che hanno aperto almeno una
volta l’email. In formula: (unique clicks / unique opens) x 100
–
Conversion rate: esprime la percentuale di conversioni (utenti che, sollecitati
dal messaggio della email, hanno compiuto una specifica azione di direct
response: iscrizione alla newsletter, un ordine di acquisto, download di
un’applicazione o di un contenuto multimediale, ecc) rispetto al numero di
persone che ha ricevuto l’email. In formula: (conversions/ email delivered) x
100
–
Unsubscribe rate: esprime la percentuale di utenti che ha abbandonato un servizio
in un dato periodo di tempo rispetto al numero totale di utenti che ne ha
usufruito nello stesso periodo; ad esempio, coloro che hanno richiesto la
cancellazione del proprio indirizzo dalla mailing list di una newsletter per
non ricevere più le email a fini promozionali e pubblicitari. In formula:
(unsubscribers/ email delivered) x 100
REFERRAL:
Referral:
termine di uso comune nel marketing per indicare le segnalazioni o
raccomandazioni di persone che, conoscendo l’azienda produttrice, suggeriscono
a terzi di rivolgersi alla stessa per la qualità e le prestazioni dei suoi
prodotti e servizi. Per estensione, il termine è usato per indicare anche quei
soggetti, in genere clienti, disposti a fornire referral in cambio di una
qualche forma di ricompensa.
Tutte
le iniziative di marketing che si avvalgono del coinvolgimento di tali soggetti
ai fini dell’acquisizione di nuovi clienti rientrano nel campo specifico del
referral marketing. Le aziende attente, che si rendono conto dell’importanza
della comunicazione basata sul passaparola, tentano di individuare persone che,
conoscendo il prodotto o servizio proposto, siano disposte a promuoverlo
all’interno della propria cerchia di amici e conoscenti.
Un
referral program, in particolare, è l’accordo con il quale il referral, ossia
colui che entra in un programma di guadagno su indicazione di un altro
individuo già iscritto, riconosce a quest’ultimo una commissione sulle vendite
generate a seguito all’appartenenza al programma.
Un
tipico esempio della meccanica di tali programmi di marketing è la formula
member-get-a-member che ricompensa ogni utente già iscritto che invita altri
utenti a iscriversi a un programma di affiliazione o ad aderire a un
determinato servizio. Da evidenziare, che i programmi di referral hanno
successo quando includono benefici anche per i nuovi iscritti: ad esempio,
Dropbox che incoraggia ad utilizzare il sistema di referral offrendo uno spazio
di archiviazione aggiuntivo sia agli utenti già acquisiti che portano nuovi
clienti sia a quest’ultimi.
Nel
gergo della pubblicità online, invece, si verifica un referral quando un utente
fa clic su un link ipertestuale, banner o altro, che lo che rimanda a un’altra
pagina. Viene definito referrer, viceversa, il sito web che, ospitando il link,
può generare un referral, ovvero una visita al sito dell’inserzionista a
seguito del click dell’utente. Solitamente, l’azienda inserzionista riconosce
ai referrer un compenso (referral fee) in proporzione al volume di lead o
vendite generate.
Sempre
nell’ambito del digital marketing, infine, si parla di referral con riferimento
alle segnalazioni raccolte da diversi siti (denominati referral web-site) di
utenti qualificati come potenzialmente interessati ai prodotti o servizi di una
specifica azienda. Parliamo, ad esempio, dei siti comparativi dove gli utenti
possono compilare un form online con i propri dati personali per ricevere
informazioni circa un prodotto o essere contattati dall’azienda produttrice.
TARGETING:
Il
targeting descrive il processo che, a partire dagli obiettivi di marketing
dell’impresa e attraverso una fase preliminare di analisi e segmentazione della
domanda di mercato, consente di individuare i segmenti obiettivo (target) verso
i quali orientare il marketing mix dell’impresa.
Nell’ambito
del processo di segmentazione del mercato, la fase di targeting segue quella di
segmentazione vera e propria e precede quella di posizionamento: una volta
scelti i segmenti obiettivo verso i quali orientare l’azione commerciale,
nell’ambito di quelli individuati mediante l’attività di segmentazione del
mercato, si determina il modo più efficace per competere all’interno di
ciascuno di essi.
Le
modalità di targeting nella pubblicità online
ll
targeting delle campagne pubblicitarie online (v. display advertising) può
essere effettuato secondo modalità di pianificazione simili a quelle adottate
per i mezzi classici, oppure in modalità programmatica (v. programmatic
buying). Si distingue a tal proposito fra:
–
Website-based targeting: il targeting viene effettuato attraverso una selezione
di siti e sezioni affini al target della campagna per caratteristiche
sociodemografiche o psicografiche, sulla base di una valutazione dei dati di
fruizione mediatica rilevati dalle indagini ufficiali (Audiweb o Comscore) o
forniti dal publisher;
–
Audience-based targeting: il targeting viene effettuato impression per
impression, grazie alla grande disponibilità di informazioni di contesto in
tempo reale che consentono un’alta profilazione delle audience.
Grazie
soprattutto ai dati di navigazione degli utenti raccolti attraverso l’uso di
cookie è possibile sviluppare specifici modelli comportamentali, detti
behaviour patterns, in grado di identificare, in maniera dinamica, cluster di
consumatori più ricettivi nei confronti di particolari tipologie di messaggi
pubblicitari o specifiche offerte di prodotto. In tal modo, si riesce a
modulare le comunicazioni con contenuti e proposte pertinenti e personalizzate,
implementando così l’efficacia delle campagne pubblicitarie on-line.
Le
piattaforme automatizzate di negoziazione programmatica (v. ad exchange) hanno
innovato in modo radicale il processo di pianificazione della pubblicità in
rete, poiché consentono all’inserzionista pubblicitario di selezionare
esclusivamente i contatti che corrispondono al target desiderato. Nel processo
tradizionale di media planning, invece, l’acquisto di spazi pubblicitari viene
effettuato ex-ante, ossia prima della messa in onda della campagna, e
successivamente viene effettuata la misurazione effettiva dell’esposizione
pubblicitaria attraverso sistemi a panel; il valore economico degli spazi
pubblicitari viene definito attraverso una stima dell’audience basata sui dati
rilevati dagli istituti di audiometria: Auditel, Audipress, Audiradio, ecc.
RETARGETING:
Il
retargeting è una funzionalità dell’ad server che consente di ricontattare gli
utenti che sono transitati per il sito web dell’inserzionista al di fuori di
questo dominio. Tecnicamente, ci si avvale di cookie, tag o altri codici
identificativi per profilare gli utenti che entrano in contatto con uno
specifico sito e poter così riconoscerli quando navigano in altri siti web.
Le
campagne di retargeting ottengono un alto tasso di conversione, dal momento che
veicolano proposte commerciali personalizzate sulla base del comportamento di
navigazione degli utenti e dell’affinità tematica del contesto in cui il
messaggio pubblicitario viene pubblicato. Le campagne di retargeting
pianificate all’interno della piattaforma di Adwords sono definite da Google
come remarketing.
REMARKETING:
Remarketing:
nella sua accezione più ampia, indica ogni azione di marketing diretto che si
avvale dell’impiego dei dati raccolti sulla clientela per ottenere informazioni
e cogliere insight in grado di generare comunicazioni con contenuti di valore e
proposte pertinenti e personalizzate. Comprende tradizionalmente le attività di
direct mailing o email marketing.
Il
termine remarketing è oggi più spesso utilizzato come sinonimo di retargeting.
In particolare, Google definisce remarketing le campagne di retargeting
attivate all’interno della propria piattaforma (Adwords). Tali campagne sono
pianificate e acquistate secondo il tradizionale modello pay-per-click (PPC),
in virtù del quale l’inserzionista pubblicitario paga solo quando l’utente
clicca sull’annuncio.
AUDIENCE TARGETING:
L’audience-based
targeting è la tipica forma di targeting in tempo reale adottata per la
pianificazione e l’acquisto di campagne di display advertising in modalità
programmatica (programmatic buying). Nel modello di acquisto audience-based, il
targeting viene effettuato impression per impression, grazie soprattutto alla
disponibilità di informazioni di contesto in tempo reale che consentono un’alta
profilazione delle audience.
Nel
modello di acquisto tradizionale di display advertising, mutuato dai media
classici, invece, il targeting viene effettuato attraverso una selezione di
siti/sezioni affini al target della campagna per caratteristiche
sociodemografiche o psicografiche, sulla base di una valutazione dei dati di
fruizione mediatica rilevati dalle indagini ufficiali (Audiweb o Comscore) o
forniti dal publisher.
L’audience
targeting può essere effettuato secondo diversi criteri. Fra le principali
variabili utilizzate, vi sono quelle demografiche (fascia d’età e genere), le
variabili geografiche (posizione dell’utente), le variabili del comportamento
d’acquisto (frequenza e occasioni d’uso di un dato prodotto) e le variabili
temporali (ora del giorno e giorno della settimana).
BRAND POSITIONING:
Brand
positioning: processo che, a partire dalla classificazione dei brand esistenti
sul mercato secondo caratteristiche significative per il comportamento del
consumatore, consente di definire la posizione che essi occupano nella mente
dei consumatori.
È il
risultato di una strategia di segmentazione del mercato, preceduta dalla
segmentazione vera e propria e dall’analisi del target. Una volta individuato
il mercato obiettivo, la fase di brand positioning permette a un’azienda di
posizionare il brand o la sua comunicazione in quel mercato, definendo il modo
in cui la marca vuole essere percepita dai clienti potenziali rispetto alla
concorrenza. Si tratta, in altri termini, di concepire un prodotto ed una
immagine di marca (brand image) in grado di occupare nella mente dei
consumatori una collocazione apprezzata e diversa da quella occupata dai
concorrenti.
Il
processo di brand positioning tipicamente prevede una fase preliminare di
analisi, che rientra nell’attività di marketing analitico e ha lo scopo di
definire gli attributi principali della classe di prodotto, e una fase di
formulazione della strategia di posizionamento, che rientra nell’attività di
marketing strategico e attiene alla pianificazione delle attività mediante le
quali l’azienda intende creare la percezione del brand nella mente dei
consumatori. In questa seconda fase si formulano i contenuti dell’offerta in
termini di marketing mix da rivolgere al mercato e si specificano le procedure di
controllo necessarie ad accertare la posizione realmente acquisita dal brand
sul mercato rispetto al posizionamento desiderato.
Il
posizionamento deriva dalla formulazione di un’offerta di valore (value
proposition) che costituisce la motivazione profonda che spinge un determinato
gruppo di clienti a preferire una marca piuttosto di un’altra. Implica, quindi,
una decisione dell’impresa circa la scelta dei benefici della marca che possono
farle guadagnare uno spazio unico e ben definito nella mente dei clienti
potenziali. Il brand positioning consiste, infatti, nel differenziare il
proprio brand da quello degli altri presenti sul mercato attraverso
l’individuazione di un elemento (oggettivo o percettivo) che lo renda unico o
almeno riconoscibile. Richiama la nozione di unique selling proposition (USP),
introdotta da Rosser Reeves negli anni Cinquanta, in base alla quale, nella
creazione di una pubblicità si dovrebbe privilegiare la comunicazione di un
vantaggio distintivo e unico del prodotto rispetto agli aspetti creativi.
Secondo
Ries & Trout (1981), tra i primi a sottolineare l’importanza del brand
positioning nel pensiero manageriale, il posizionamento può manifestarsi in tre
distinte situazioni:
– il
posizionamento attuale, che concerne il beneficio distintivo che il brand è in
grado di offrire e per il quale è conosciuto dal consumatore: ad esempio la
funzionalità, la convenienza, l’innovazione, ecc.
– il
nuovo posizionamento, con il quale l’azienda mira a costruire la percezione che
i consumatori avranno di un nuovo brand; si tratta di identificare quella
qualità specifica per la quale la marca vuole essere conosciuta dal
consumatore.
– il
riposizionamento, attraverso cui l’azienda mira ad influire sul modo in cui i
consumatori percepiscono un brand esistente. Si rende necessario quando
avvengono sostanziali cambiamenti nel mercato, per soddisfare al meglio la
domanda di certi gruppi di consumatori e consentire così all’impresa di
mantenere un vantaggio competitivo. Quando l’azienda amplia una linea di
prodotti (v. line extension) o introduce una nuova marca in un mercato in cui
ne possiede già una o più (v. brand extension), il riposizionamento può rendersi
necessario per ridurre al minimo l’effetto di cannibalizzazione delle vendite
ed assicurare una posizione favorevole ai nuovi prodotti o brand.
Più
nel dettaglio, il riposizionamento può essere reale, se comporta cambiamenti
specifici nel prodotto o implica nuovi modi d’uso, oppure psicologico se cerca
di influire sul modo in cui i consumatori lo percepiscono. Per “ridefinire” la
percezione di un prodotto da parte dei consumatori si possono utilizzare le
diverse leve del marketing mix. Il riposizionamento può, dunque, comportare
modifiche fisiche, di prezzo o di distribuzione; più di frequente, soprattutto
nella fase di maturità del ciclo di vita del prodotto, si interviene agendo
sull’immagine di marca (brand image) percepita dai consumatori mediante campagne
pubblicitarie e iniziative promozionali.
Riassumendo
quanto detto sopra, se ne deduce che il posizionamento non riflette una
condizione stabile e duratura, ma nel tempo può variare al mutare dell’ambiente
o delle tendenze della domanda. Per le aziende è pertanto indispensabile
dotarsi di strumenti di analisi e monitoraggio del brand positioning in grado
di valutare se e quando è opportuno attuare strategie di riposizionamento.
Lo
strumento di analisi più utilizzato per interpretare il vissuto del prodotto o
brand da parte del consumatore è la mappa percettiva, o mappa di
posizionamento, che consente di visualizzare come i consumatori percepiscono i
propri prodotti o brand e misurare le distanze competitive fra i concorrenti.
La mappa di posizionamento consiste in un diagramma cartesiano a due
dimensioni, in cui, su ciascun asse, si pongono in contrapposizione due termini
opposti; nel mercato automobilistico, ad esempio, potremmo posizionare i brand
in base ai seguenti parametri: affidabilità/economia e confort/prestazioni.
USP:
USP
(Unique Selling Proposition): in italiano “argomentazione esclusiva di
vendita”, ossia l’argomento unico di vendita sul quale la campagna
pubblicitaria deve fondarsi. L’USP è una breve affermazione con cui si
evidenzia il singolo punto, di vantaggio o caratterizzante, o la prestazione
del prodotto su cui concentrare il messaggio, per renderlo attraente agli occhi
del consumatore.
L’ USP
è il concetto alla base della teoria pubblicitaria sviluppata negli anni
Quaranta da R. Reeves, secondo il quale la pubblicità deve offrire al
consumatore una logica ragione per comprare il prodotto, e tale ragione deve
distinguere il prodotto dai suoi concorrenti. Reeves sintetizzò la teoria in
tre punti fondamentali: 1. ogni campagna pubblicitaria deve proporre un
beneficio (benefit) per il consumatore; 2. questo deve essere tale che la
concorrenza non può offrirlo; 3. il beneficio deve essere così forte da poter
spingere milioni di consumatori all’acquisto.
La
teoria di Reeves, in sostanza, tende a focalizzare l’attenzione di una campagna
pubblicitaria sugli elementi di unicità di un prodotto rispetto alla
concorrenza. Simile al concetto di USP, ma dalla connotazione più ampia, è la
value proposition. Anch’essa può essere intesa come una promessa fatta al
consumatore; tuttavia, la USP esprime ciò che l’azienda si impegna a garantire
al cliente in termini di soluzione di un problema o appagamento di un bisogno,
mentre la value proposition riguarda l’esperienza complessiva che il cliente
può attendersi dal prodotto proposto e dal rapporto con l’impresa fornitrice.
COPY STRATEGY:
Copy
strategy: documento che definisce gli elementi chiave di una strategia
pubblicitaria sotto il profilo creativo. Fornisce l’insieme di riferimento su
cui sviluppare la strategia creativa che verrà usata per comunicare al mercato
le caratteristiche distintive e i benefici rivendicati dal prodotto.
Solitamente,
una copy strategy è un breve documento strutturato nei punti seguenti:
–
benefit: la definizione del vantaggio base che il prodotto promette ai
potenziali acquirenti; è la ragione per cui il target dovrebbe essere spinto
all’acquisto.
–
insight: l’esigenza non soddisfatta del consumatore che è alla base della
soluzione promessa;
–
reason why: l’argomentazione o la prova dei fatti a supporto della promessa;
rende credibile la promessa dei vantaggi offerti dal prodotto;
–
supporting evidence: quel particolare fattore, in genere una caratteristica
specifica o un comportamento del consumatore, che dimostra la validità della
promessa;
– tone
of voice: la modalità di presentazione dei vantaggi offerti dal prodotto e dei
relativi argomenti che viene identificata come coerente rispetto al prodotto da
comunicare e al suo posizionamento;
–
altri elementi utili per poter definire la strategia creativa della campagna da
proporre al cliente (ad esempio, il target group o il brand positioning),
inclusi quelli che possono influenzare la percezione del prodotto da parte del
consumatore: ad esempio, il brand character o la brand personality.
Copy
strategy e star strategy
La
copy strategy è un modello operativo sviluppato negli anni Trenta per
iniziativa di alcune grandi agenzie pubblicitarie americane. Si fonda su un
processo logico e razionale che, partendo dalla raccolta ed elaborazione
(attraverso le ricerche di mercato) delle informazioni sul pubblico-obiettivo
(target), consente di definire la strategia creativa più appropriata per
comunicare i plus e i benefit che il prodotto offre. Tale processo è
applicabile a tutti i clienti dell’agenzia e a tutte le forme di comunicazione,
al di là dei mezzi su cui essa viene veicolata. La copy strategy, infatti, deve
garantire continuità e coerenza (nel tempo e fra i mezzi) alla comunicazione
pubblicitaria.
All’inizio
degli anni Ottanta il pubblicitario francese J. Séguéla metterà in discussione
questo modello opponendogli una strategia alternativa, definita star strategy,
che vede la pubblicità non più come informazione circa l’USP di un prodotto, ma
come un vero e proprio spettacolo di star. La pubblicità, secondo Séguéla, non
può più essere ricondotta allo schema rigido della copy strategy: la
standardizzazione delle prestazioni dei prodotti rende inefficaci tutte le
strategie creative basate sull’enfasi delle caratteristiche e benefici del
prodotto. La star strategy, al contrario, mira a creare una comunicazione in
grado di rendere riconoscibili e desiderabili i prodotti, mettendoli in scena
in maniera spettacolare.
L’approccio
di comunicazione proposto da Séguéla è basato sulla metafora del prodotto come
persona. Proprio come le persone, il prodotto deve avere un proprio fisico (le
caratteristiche fisiche e percettive del prodotto), un proprio carattere (lo
spirito che anima la pubblicità) e un proprio stile (il modo con cui ci si
rivolge al pubblico); se il fisico e lo stile possono cambiare nel tempo, il
carattere deve rimanere immutabile. Séguéla esorta il pubblicitario a creare un
carattere unico e distintivo per il prodotto-persona, operando nell’intento di
farne una celebrità; in modo analogo allo star system hollywoodiano che
imponeva regole ferree per le esternazioni pubbliche degli attori (e che ha
ispirato il nome star strategy).
INSIGHT:
Insight:
comprensione della strategia utile alla risoluzione di un problema mediante un’intuizione
che consente di rivedere il problema nella sua interezza, generando un modo di
pensare completamente nuovo per risolverlo.
Insight,
letteralmente è la capacità di vedere “dall’interno” una situazione per meglio
comprenderla. Nel marketing, il consumer insight mette in evidenza il problema
che un nuovo prodotto si propone di risolvere, dal punto di vista di vista del
potenziale acquirente. Si fonda, in altri termini, sulla capacità di cogliere
un bisogno non soddisfatto del consumatore, o una opportunità più favorevole di
consumo che i prodotti esistenti ancora non colgono.
Elemento
imprescindibile di un concept di un nuovo prodotto, dove il benefit (la
promessa fatta dal prodotto al consumatore) solitamente deriva da un insight
(un’esigenza non soddisfatta o un bisogno non appagato del consumatore) ed è
avallato da una reason why (che giustifica e rafforza la promessa medesima).
ROI:
ROI o
Return On Investment: tasso di rendimento di un investimento di marketing o di
comunicazione; misura il rendimento rispetto al capitale investito. L’indice
ROI si rivela particolarmente utile per confrontare tra loro i rendimenti
derivanti da forme diverse di investimento.
Nella
sua espressione più semplice, l’indice ROI si esprime come rapporto percentuale
fra la differenza tra ricavi e costi dell’investimento e il costo stesso
dell’investimento: ROI = [ (Ricavi-Costi) / Costi ] x 100
Per le
campagne sui mass media, Il ROI sulla pubblicità può essere determinato anche
come rapporto tra le vendite (in volume) addizionali generate dalla pubblicità
e il budget pubblicitario allocato, moltiplicato per il prezzo medio di vendita
al pubblico. In tal caso, l’indice ROI misura gli effetti di breve periodo
della pubblicità sulle vendite incrementali, dunque, al netto degli effetti di
lungo periodo e, in particolare, senza considerare il ruolo della comunicazione
nel costruire l’equity del brand. Per determinare l’effettivo
contributo
della pubblicità sulle vendite, peraltro, occorre prendere in considerazione
anche altre variabili: distribuzione del prodotto, stagionalità del mercato,
vendite promozionali, ecc.
Per
valutare la reattività delle vendite alle campagne pubblicitarie – in
particolar modo quelle televisive – ci si avvale spesso dei modelli
econometrici. Grazie ad essi è infatti possibile mettere in relazione le
vendite incrementali generate dall’advertising con i corrispettivi valori di
budget sostenuti e di pressione pubblicitaria generata (tipicamente misurata in
GRP).
Il ROI
è usato soprattutto per la misurazione e la valutazione delle performance delle
campagne di digital marketing. Fra le principali metriche utilizzate per
misurare l’efficacia di un’attività commerciale o di un’iniziativa di marketing
online, infatti, vi sono quelle legate alle azioni effettuate dall’utente
durante la navigazione (ad esempio, visite o click), quelle relative al funnel
di marketing (ad esempio, lead e conversion) e, infine, quelle utili a valutare
il contribuito generato dalle attività di marketing (appunto, il ROI).
Per le
campagne online più strutturate, il ritorno sull’investimento pubblicitario
rappresenta una misura di sintesi più completa e, per certi versi, più
significativa rispetto ad altri KPI di efficienza quali il costo per contatto
(CPC) o il Cost per Acquisition (CPA). Il ROI, infatti, incorpora tutti i costi
sostenuti per lo svolgimento della campagna pubblicitaria: dall’acquisto degli
spazi pubblicitari (media buying), alla progettazione e alla realizzazione
della campagna medesima.
CPM:
Cost
per mille: in ambito pubblicitario, generalmente si intende il costo per
migliaia di impression. È un indicatore di efficienza impiegato in fase di
pianificazione di una campagna pubblicitaria per valutare l’economicità di un
piano mezzi o di un singolo avviso. In origine cost per thousand, tale
indicatore è oggi noto col nome latinizzato di cost per mille (CPM), misura che
ha soppiantato il Cost Per Impression o CPI.
Il CPM
(impression) si ottiene dividendo il costo della campagna pubblicitaria (o di
un annuncio) per il numero totale di impression servite dall’ad server per
quella campagna (o annuncio) e, quindi, moltiplicando il risultato per mille.
Il CPM
è la modalità di acquisto tipica delle campagne di display advertising con
obiettivi di awareness. Rappresenta, infatti, un modello di investimento
pubblicitario che si basa sull’esposizione (Pay-Per-View), ossia sul numero di
esposizioni veicolate, e non sui risultati dell’esposizione e dunque sul numero
di risposte generate dall’azione pubblicitaria (Pay-Per-Performance), come
invece avviene per le campagne che si basano su parametri quali Cost Per Click
(CPC), Cost Per Acquisition (CPA), Cost Per Lead (CPL), Cost Per Action (CPA).
L’espressione
cost per mille può riferirsi anche ai contatti generati da un mezzo, veicolo o
singolo annuncio pubblicitario e, in tal caso, il CPM esprime il costo che
l’inserzionista deve sostenere per raggiungere mille persone con il proprio
messaggio promozionale o pubblicitario. Si determina dividendo il costo della
campagna pubblicitaria (o di un annuncio) per il numero di contatti raggiunti
(costo per contatto lordo) o per il numero di persone contattate appartenenti
al target (costo per contatto netto) e, infine, moltiplicando il risultato per
mille.
BRAND AWARENESS:
Brand
awareness: identifica il grado di conoscenza della marca da parte del pubblico.
Si esprime con la percentuale di consumatori appartenenti al target group che
ricorda la marca senza bisogno di uno stimolo
verbale
o visivo (ricordo spontaneo) o che la riconosce dopo essere stata sottoposta a
uno stimolo (ricordo aiutato).
La
notorietà di marca è stata variamente definita, ma nel senso più ampio include
diversi indicatori, misurabili attraverso indagini a campione o analisi di
mercato, che vengono impiegati per valutare l’effettiva capacità del
consumatore di riconoscere un brand, richiamarlo alla memoria, identificarlo in
modo corretto per quanto riguarda la categoria merceologica, la sua immagine o
il suo posizionamento.
Gli
indicatori di brand awareness
La
notorietà di marca può declinarsi in notorietà spontanea (unaided brand
awareness) e notorietà sollecitata (assisted brand awareness). Nel primo caso,
viene chiesto all’intervistato di citare le marche che conosce in un dato
settore di mercato, anche solo per averle sentite nominare; nel secondo caso,
invece, viene sottoposto all’intervistato un elenco di marche fra le quali
scegliere. L’insieme di notorietà spontanea e notorietà sollecitata di una
marca forma la notorietà totale di marca (global brand awareness).
Nell’ambito
della notorietà spontanea l’indicatore più importante è la Top of Mind o TOM
awareness, che corrisponde alla prima marca citata dal consumatore con
riferimento ad una certa classe di prodotti. La TOM può essere considerata come
la forma di notorietà più vicina all’intenzione d’acquisto del consumatore e
come quella più strettamente correlata al valore di marca (brand equity).
In
particolare, la propensione all’acquisto del consumatore può essere valutata
attraverso la salienza di marca (brand saliency). Si tratta di un indicatore
che esprime il rapporto tra TOM e notorietà spontanea; di conseguenza, più una
marca è ben classificata nella graduatoria delle indicazioni spontanee del
consumatore, più la sua salienza è elevata.
La
piramide della brand awareness di Aaker
La
piramide della notorietà di marca è un metodo utilizzato per raccogliere e
catalogare i dati di ricordo rilevati tramite tracking study e altre ricerche
di mercato. La piramide è suddivisa in quattro livelli sulla base del grado di
memorizzazione della marca da parte del consumatore: si va dal livello più
basso, Unaware of a Brand (l’intervistato non cita la marca, né spontaneamente,
né su sollecitazione), all’apice della notorietà, ossia la TOM awareness,
passando per la brand recognition (l’intervistato riconosce la marca su
sollecitazione) e la brand recall (l’intervistato cita la marca
spontaneamente). Vedi le apposite voci per approfondimenti sul tema.
GRP:
GRP
(Gross Rating Point): indice della pressione pubblicitaria esercitata da un
mezzo o veicolo pubblicitario sul target group. È dato dal prodotto tra la
copertura ottenuta dal mezzo o veicolo e la frequenza media di esposizione. Più
di frequente, si esprime come rapporto percentuale tra il numero di contatti
lordi realizzati da un mezzo o veicolo con riferimento a un dato target e
l’entità stessa del target.
GRP =
Copertura x Frequenza media
In
alternativa,
GRP =
Contatti lordi / Entità del Target
Si
tratta di un’unità convenzionale di misura tradizionalmente impiegata nella
pianificazione, nell’acquisto e nella valutazione di campagne pubblicitarie
veicolate sui mass media (in origine, concepita per le campagne televisive).
Questa metrica di misurazione dell’esposizione pubblicitaria è oggi adottata
anche per le campagne di display advertising (in particolar modo, per quelle di
video advertising).
Il GRP
si rivela particolarmente utile quando occorre confrontare le performance di
mezzi o veicoli diversi rispetto a un determinato target group. Il GRP,
infatti, misura la forza di una campagna pubblicitaria, ossia la quantità di
comunicazione prodotta da un piano mezzi rispetto a un determinato target
group, sia in assoluto sia in rapporto con le campagne dei concorrenti.
Da
evidenziare come dal GRP derivi il CPG (Cost Per GRP) che rappresenta un KPI di
efficienza utilizzato per valutare l’economicità di un piano media o di un
singolo mezzo o veicolo pubblicitario. Il CPG è il costo sostenuto
dall’inserzionista per ogni GRP sviluppato dalla campagna pubblicitaria sul
target group.
Le
formule di calcolo del GRP
Nella
sua formulazione classica, come abbiamo visto, il GRP è il prodotto tra
copertura (la percentuale delle persone in target effettivamente raggiunta) e
frequenza (quante volte in media ogni individuo in target è esposto, o
potenzialmente esposto, al messaggio pubblicitario). Più nel dettaglio:
– Si
parla di copertura (reach), solitamente con riferimento alla copertura netta
che indica il numero di individui appartenenti al target group che sono stati
esposti almeno una volta alla comunicazione pubblicitaria in un dato intervallo
temporale. Si esprime generalmente come rapporto percentuale tra i contatti
netti (al netto, cioè delle duplicazioni) generati dalla campagna e l’entità del
target preso come obiettivo.
Net
Reach = ( Contatti Netti / Entità del Target ) x 100
– Si
parla di frequenza (frequency), solitamente con riferimento alla frequenza
media o OTS (Opportunity To See) che esprime il numero medio di volte che il
pubblico è esposto (o potenzialmente esposto) alla comunicazione pubblicitaria.
Si determina in base al rapporto fra contatti lordi e contatti netti generati
dalla campagna.
OTS =
contatti lordi / contatti netti
È
evidente che copertura e frequenza possono essere determinate anche in rapporto
ai GRP, nel qual caso la reach risulta dal rapporto fra i GRPs generati dalla
campagna e la frequenza media; viceversa, la frequenza media si ottiene
dividendo i GRPs per la Reach.
A sua
volta, il GRP può essere determinato utilizzando le formule di copertura e
frequenza. Si ottiene così una formula semplificata (per l’eliminazione dei
fattori comuni del numeratore e del denominatore) per calcolare i GRP che viene
spesso impiegata per la misurazione di campagne cross-mediali. Di seguito, i
passaggi della trasformazione partendo dalla formula classica:
GRP =
Net Reach x OTS
GRP =
(Contatti Netti / Entità del Target) x 100 x (Contatti Lordi / Contatti Netti)
GRP =
(Contatti Lordi / Entità del Target) x 100
Come
si calcola il GRP nelle campagne pubblicitarie online
Come
accennato, il GRP è un’unità di misura adottata anche per la misurazione delle
campagne online. Il digital GRP misura la quantità di comunicazione prodotta da
una campagna di display advertising rispetto a un determinato target group in
un determinato periodo di tempo. È dato, anche in questo caso, dal prodotto tra
la copertura ottenuta e la frequenza media, laddove però tali parametri,
mutuati dal processo di pianificazione delle campagne pubblicitarie sui media
tradizionali, si determinano ricorrendo alle specifiche metriche di misurazione
dell’esposizione pubblicitaria in Rete.
Net
Reach = (Unique Viewers / Target Audience) x 100
OTS =
Impressions / Unique Viewers
Digital
GRP = (Impression / Target Audience) x 100.
Nella
sua espressione semplificata, dunque, il digital GRP si esprime nel rapporto
percentuale tra il numero complessivo di impression generate dalla campagna con
riferimento a un dato target e l’entità stessa del target.
FREQUENZA:
Si parla
di frequenza, nell’ambito del media planning, solitamente con riferimento alla
frequenza media che indica il numero medio di volte in cui gli individui
appartenenti al target group hanno la possibilità di essere esposti a un
messaggio o contattati da un medium nel corso di una campagna pubblicitaria. Si
determina in base al rapporto fra contatti lordi e contatti netti e si esprime,
di solito, in relazione a un periodo di tempo.
La
frequenza media è anche nota con l’acronimo OTS (opportunity to see), in
ragione del fatto che non vi è certezza di esposizione al medium: esprime,
cioè, solo la possibilità, o meglio la probabilità, che gli appartenenti al
target vengano raggiunti dal messaggio pubblicitario. Così, ad esempio, nel
mezzo televisivo le OTS rappresentano le occasioni in cui le persone vedono lo
spot (o potrebbero vederlo perché la tv è accesa) in relazione al periodo di
tempo esaminato.
Copertura
e frequenza sono indicatori fondamentali che consentono di valutare l’efficacia
di un piano mezzi, tanto ex-ante (pre-evaluation) quanto ex-post
(post-evaluation). Per approfondimenti di carattere generale sul tema
dell’efficacia pubblicitaria si rimanda all’apposita voce.
Viene
definita frequenza efficace (effective frequency) il numero medio di esposizioni
a un medium che si ritengono necessarie per ottenere una specifica risposta da
parte degli individui contattati. In linea di massima, tutti coloro che vengono
raggiunti un numero di volte che è di molto inferiore o superiore a quello
indicato come frequenza efficace rappresentano contatti sprecati: o non si
raggiunge una soglia di attenzione sufficiente per diffondere il messaggio o si
crea disinteresse in seguito alla sovraesposizione all’annuncio.
Per
determinare la classe di frequenza che può considerarsi efficace, tipicamente
si ricorre alla distribuzione di frequenza, ossia alla ripartizione dei
contatti in relazione al numero di esposizioni al messaggio pubblicitario:
numero di persone raggiunte solo una volta, solo due volte, e così via.
CLICK TROUGHT RATE:
Click-Through
Rate (CTR): è il rapporto fra il numero dei click generati da un annuncio e il
numero delle volte in cui l’annuncio stesso è stato visto.
Più
precisamente, il Click-Through Rate indica la percentuale di click generati da
un annuncio (banner o link sponsorizzato) in rapporto alle impression servite
dall’ad server per quello stesso annuncio.
Il
Click-Through Rate è una misura dell’efficacia della comunicazione
pubblicitaria. Altri importanti indicatori impiegati per valutare l’efficacia
delle campagne di direct marketing sono – rispettivamente in termini di
risposta cognitiva, affettiva e comportamentale – il tasso di risposta
(redemption), il tasso di conversione (conversion rate), l’ordine (order) e la
prova d’acquisto (trial). Per maggiori approfondimenti si rimanda alla voce
Email marketing.
I
principali indicatori di costo utilizzati per valutare l’economicità (e dunque
l’efficienza) delle campagne online sono: Cost Per Click (CPC), Cost Per
Acquisition (CPA), Cost Per Lead (CPL), Cost Per Action (CPA), ecc.
AD IMPRESSION:
Ad
Impression: numero totale di visualizzazioni di un annuncio pubblicitario
servite da un ad server a un utente in un dato intervallo temporale.
L’ Ad
impression è un indicatore di base dell’esposizione pubblicitaria in Rete che
viene valutato nel corso della pianificazione di campagne di display
advertising. Nella modalità d’acquisto di spazi pubblicitari detta pay per
impression l’inserzionista paga ogni volta che il suo annuncio viene
visualizzato da un utente, indipendentemente dai clic sull’annuncio stesso. L’
unità di misura adottata non è il Cost Per Impression (CPI), ma il Cost Per
Mille (CPM), cioè il costo per migliaia di impression.
Il CPM
rappresenta un modello di investimento pubblicitario che si basa
sull’esposizione (Pay-Per-View), ossia sul numero di esposizioni veicolate, e
non sui risultati dell’esposizione e dunque sul numero di risposte generate
dall’azione pubblicitaria (Pay-Per-Performance), come invece avviene per le
campagne che si basano su parametri quali Cost Per Click (CPC), Cost Per
Acquisition (CPA), Cost Per Lead (CPL), Cost Per Action (CPA). Si rimanda alla
voce Display advertising per approfondimenti.
Dal
concetto di impression a quello di inventory
Si
definisce ad inventory l’offerta editoriale e di spazi pubblicitari che un
editore (publisher) mette a disposizione degli inserzionisti pubblicitari
(advertiser) per il collocamento di campagne di display advertising. Il suo
valore dipende dalla quantità e dalla qualità delle ad impression che la
compongono.
La
disponibilità teorica del bacino di impression erogabili agli inserzionisti, di
norma, viene stimata dall’ad server sulla base del traffico generato dal sito
web, o dal network di siti web del publisher, nel periodo precedente di
erogazione. La qualità di ogni singola ad impression viene, invece, valutata
tenendo conto di diversi parametri: la posizione che lo spazio pubblicitario
occupa all’interno del sito/pagina web, la dimensione e il formato
dell’annuncio, i criteri di targetizzazione dell’audience adottati. Le ad
impression che rispondono meglio ai criteri sopra descritti confluiscono nella
premium inventory, che rappresenta il bacino di ad impression di maggiore
valore del publisher. La negoziazione e la vendita di inventory premium viene
gestita, in larga parte, dai venditori della concessionaria pubblicitaria
attraverso trattative dirette con centri media e clienti e, in minore misura,
mediante l’impiego di piattaforme tecnologiche automatizzate; in quest’ultimo
caso, l’acquisto di premium inventory è, solitamente, frutto di negoziazioni
programmatiche (programmatic buying and selling) condotte in ambienti di
private ad exchange.
AD EXCHANGE:
L’ad
exchange è la piattaforma tecnologica utilizzata per l’automazione delle
campagne di display advertising e la loro gestione in tempo reale sotto diversi
aspetti, come il targeting, il planning, il buying e la delivery degli annunci
pubblicitari.
Gli ad
exchange operano nell’ecosistema del programmatic buying and selling in maniera
simile alle piattaforme di trading utilizzate nei mercati borsistici; si
configurano, infatti, come open marketplace attraverso i quali si realizza lo
scambio fra domanda (agenzie e inserzionisti) e offerta (concessionarie ed
editori) nella compravendita in tempo reale di spazi pubblicitari online.
L’acquisto
di ad inventory in modalità programmatica viene effettuato impression per
impression, laddove ogni singola impression immessa nella piattaforma di ad
exchange viene valutata in base alle informazioni demografiche, comportamentali
e contestuali ad essa associate, prima di essere assegnata, tipicamente
attraverso un meccanismo di offerta ad asta in tempo reale (real time bidding o
RTB), all’inserzionista che presenta l’offerta più alta (il quale, in genere,
paga l’impression un importo equivalente alla seconda offerta più alta
dell’asta).
L’asta
può essere aperta a tutti gli advertiser che accedono alla piattaforma (open ad
exchange), oppure a numero chiuso su invito del publisher (private ad
exchange); in entrambi i casi, sono oggetto di negoziazione, per lo più,
inventory non garantite e inventory invendute; tuttavia, nel caso di
negoziazioni in ambienti privati, gli advertiser possono beneficiare di una
priorità sulla chiamata per l’acquisto di una determinata ad impression (first
look). L’ad exchange, inoltre, rende possibili anche forme di negoziazione
dirette tra buyer e seller, come i programmatic deal, che consentono
all’advertiser di acquistare, in base ad un prezzo fisso pre-negoziato, una
quota delle inventory garantite o delle inventory premium del publisher.
Per
accedere a uno o più ad exchange, i publisher utilizzano le piattaforme di
selling (supply side platform o SSP), attraverso le quali possono presentare le
richieste di offerta (bid request) che contengono tutte le principali
informazioni inerenti agli spazi pubblicitari proposti: il posizionamento e il
formato, la tipologia di banner erogabile, i prezzi minimi di vendita (floor
price); l’URL della pagina web che ospita lo spazio pubblicitario non rientra,
in genere, tra le informazioni a disposizione degli inserzionisti che
partecipano a una open auction (l’inserzionista, solo nel momento in cui si
aggiudica l’asta, scopre dove l’annuncio è stato pubblicato). Dal lato della
domanda, invece, gli advertiser si avvalgono delle piattaforme di buying
(demand side platform o DSP), per presentare offerte d’asta (bid) per le ad
impression selezionate secondo i criteri prefissati nell’ad exchange: target,
budget e timing della campagna, il prezzo massimo che si intende spendere per
singola impression, le sezioni di maggiore interesse di un sito web, ecc.
SSP:
Nell’ecosistema
del Programmatic Buying & Selling, la Supply Side Platform (SSP) è la
piattaforma tecnologica connessa all’ad exchange che consente ai media seller
(concessionarie ed editori) di vendere la propria ad inventory in tempo reale.
Nelle
negoziazioni programmatiche in Real Time Bidding o RTB, la SSP permette ai
publisher di presentare delle richieste di offerta (bid request) che contengono
tutte le principali informazioni inerenti agli spazi pubblicitari proposti
sugli ad exchange: il posizionamento e il formato, la tipologia di banner
erogabile, i prezzi minimi di vendita (floor price); l’URL della pagina web che
ospita lo spazio pubblicitario non rientra sempre tra le informazioni a
disposizione degli inserzionisti: nella modalità di offerta anonima, tipica
nelle open auction, l’inserzionista scopre dove l’annuncio è stato pubblicato
solo nel momento in cui si aggiudica l’asta.
CHURN RATE:
Churn
rate: il tasso di abbandono o tasso di defezione esprime la percentuale di
clienti che ha abbandonato un servizio in un dato periodo di tempo rispetto al
numero totale di clienti che ne ha usufruito nello stesso periodo.
Il
churn rate è inversamente proporzionale al retention rate: quanto più basso è
il churn rate, tanto più alto è il retention rate e viceversa. Incrementare il
tasso di fedeltà della clientela, minimizzando il tasso di abbandono, è
l’obiettivo primario dell’impresa orientata al marketing. A tal fine, l’impresa
si avvale solitamente dell’impiego di attività di marketing e promozione: essa,
ad esempio, può ricorrere ad incentivi e sconti per indurre il cliente alla
ripetizione dell’acquisto, o alla prova di nuovi prodotti.
La
churn analysis è un’analisi previsionale che consente di individuare i clienti
che presentano una maggiore probabilità di passare alla concorrenza, al fine di
intervenire in anticipo ed evitarne la migrazione. Grazie all’analisi delle
transazioni e delle altre informazioni disponibili sulla clientela (elaborate
con l’ausilio di sistemi di CRM), l’impresa può monitorare il grado di
soddisfazione del cliente (customer satisfaction) e pianificare azioni dirette
ad aumentarlo, nell’intento di evitare che i propri clienti la abbandonino. Si
rimanda alla voce customer retention per maggiori approfondimenti.
MARKETING ONE-TO-ONE:
Marketing
one-to-one: approccio produttivo e commerciale che si fonda sulla
differenziazione dell’offerta in base alle specifiche esigenze del singolo
consumatore. Prevede, in genere, varianti e adattamenti di un’offerta
principale (riguardanti il prodotto, prezzo, l’assistenza post-vendita, ecc.)
come conseguenza di un rapporto diretto fra consumatore e impresa.
Il
marketing one-to-one presuppone un approccio al mercato basato sulla relazione
personale e diretta tra impresa e consumatore; essa, infatti, si fonda sul
modello del marketing relazionale che, grazie anche al supporto delle
tecnologie informatiche e alle potenzialità d’interazione, tende a focalizzare
l’attenzione dell’impresa sul cliente e sul soddisfacimento dei suoi bisogni.
Il marketing one-to-one, pertanto, richiede un continuo sforzo di comprensione
dei bisogni e desideri del cliente e l’abilità di adattarsi rapidamente a
cambiamenti nel suo comportamento di acquisto e di consumo; ciò implica la
capacità di acquisizione ed elaborazione di grandi quantità di dati, resa
possibile dall’impiego di tecnologie informatiche e digitali sempre più
sofisticate. Le tecnologie digitali, in particolare, consentono di gestire in
maniera più efficace le informazioni sui gusti e le esigenze dei clienti
permettendo alti livelli di personalizzazione del prodotto a costi molto
inferiori rispetto al business off-line.
AIDA:
AIDA:
modello di funzionamento della pubblicità, così denominato sulla base delle
iniziali delle parole che caratterizzano le sue quattro fasi, ossia Attenzione,
Interesse, Desiderio, Azione. Questi step rappresentano diversi momenti
attraverso cui passa il consumatore, dallo stadio iniziale in cui viene a
conoscenza del prodotto o brand, a quello in cui passa all’azione (acquisto,
prova, richiesta di informazioni, ecc.).
La
semplicità del modello AIDA è alla base del suo successo: tale modello vede la
pubblicità come una forza che deve indurre le persone all’azione attraverso una
successione di fasi, tutte necessarie affinché il messaggio pubblicitario abbia
effetto e raggiunga il suo scopo. Un annuncio pubblicitario per essere efficace
deve dunque attirare l’attenzione, suscitare interesse, provocare il desiderio
e indurre all’azione. Più nel dettaglio,
–
Attenzione: è lo stadio iniziale del modello AIDA, la prima fase in cui si
manifesta l’influenza della pubblicità; prevede la consapevolezza
dell’esistenza del servizio o del prodotto in questione. In termini di
comunicazione, la fase iniziale corrisponde alla creazione della awareness, o
notorietà di marca e/o di prodotto, nella testa del consumatore.
–
Interesse: è la fase in cui i consumatori manifestano un interesse attivo nei
confronti del prodotto; attraverso la ricerca di informazioni i consumatori
vengono a conoscenza delle qualità e delle caratteristiche del prodotto e
maturano un atteggiamento favorevole nei confronti del prodotto medesimo.
–
Desiderio: è lo stadio in cui viene espressa una preferenza rispetto a tutte le
altre possibili alternative e con essa si manifesta il desiderio all’azione o
l’intenzione di acquisto.
–
Azione: è lo stadio finale del modello AIDA nel quale il consumatore compie
quella specifica azione, identificata dall’inserzionista quale obiettivo
dell’iniziativa pubblicitaria: ad esempio, l’acquisto o la sottoscrizione di
una newsletter
AIDA
e il modello della gerarchia degli effetti
Negli
anni Sessanta Lavidge e Steiner elaborano un modello che presenta, rispetto al
modello AIDA, una maggiore completezza e sistematicità. Questo noto modello,
spesso definito come “gerarchia degli effetti” o come “Learn-Feel-Do Model”
(letteralmente apprendere, provare un sentimento ed agire), pur postulando una
successione rigida di fasi proprio come il modello AIDA, ha comunque il merito
di ipotizzare un processo significativo per la sfera affettiva e cognitiva come
premessa al passaggio all’azione.
In
tale modello, infatti, le diverse fasi del processo di convincimento del
consumatore vengono messe in relazione con tre dimensioni basiche, cioè
cognitiva (conoscenza, comprensione), affettiva (apprezzamento, preferenza) e
conativa (convinzione, acquisto), laddove le prime due dimensioni sono
determinanti per generare la terza. La risposta del consumatore agli stimoli
dell’azione pubblicitario, in particolare, può essere valutata in termini di:
percezione e memorizzazione dei contenuti pubblicitari associati a un prodotto
o brand (risposta cognitiva); intenzione di acquisto o preferenza per un
determinato brand (risposta affettiva); azioni e acquisti (risposta
comportamentale).
Sia il
modello AIDA che il modello della gerarchia degli effetti, per quanto
criticati, soprattutto riguardo alla necessità del passaggio attraverso la
suddetta gerarchia, vengono ancora ritenuti sufficientemente validi. Ciò è
dimostrato dal fatto che le ricerche per la valutazione dei messaggi
pubblicitari si riferiscono a categorie quali: interesse, comprensione,
ricordo, memorabilità e così via, facendo appunto l’ipotesi che più forti sono
queste caratteristiche maggiore è la qualità pubblicitaria del messaggio e più
forte la sua influenza sul consumatore.
JURNEY:
Journey
(customer journey o consumer journey): modello di marketing utilizzato per
descrivere e analizzare il path to purchase, ossia il percorso che porta il
consumatore all’acquisto di un determinato prodotto o servizio; tale percorso
ideale viene spesso visualizzato nei suoi momenti chiave attraverso una mappa
(customer journey map).
Il
consumer journey consiste in un breve documento che descrive le tappe del
percorso del potenziale acquirente di un prodotto o servizio, o le illustra
visivamente, attraverso i principali punti di contatto con l’azienda. Consente
all’impresa di esaminare punti di forza e di debolezza di ogni singolo touch
point e di identificare gli strumenti più idonei per ottenere un miglioramento
dell’esperienza complessiva maturata nel corso del processo di acquisto e di
utilizzo del prodotto.
Le
fasi del consumer journey
Il
modello del consumer journey prevede quattro fasi, o “battleground”: ogni fase
viene considerata come un campo di battaglia dove i brand si trovano a
competere continuamente per conquistare l’attenzione e le preferenze del
consumatore. Più nel dettaglio, queste fasi sono:
Initial
consideration set: è l’insieme dei prodotti o brand, fra l’universo disponibile
sul mercato, che un consumatore prende in considerazione all’inizio del
processo decisionale. Nello stadio iniziale del journey il consumatore,
stimolato da un bisogno o dalla pubblicità, prende coscienza dell’esistenza di
una certa categoria di prodotti e comincia a prendere in considerazione un set
di prodotti o brand al suo interno.
Active
evaluation: il consumatore, dopo aver sviluppato la consapevolezza di ciò che
esiste e come viene offerto, confronta caratteristiche e prezzi dei prodotti
presi in esame. La ricerca di informazioni, sempre più spesso, avviene in tutte
le fasi del journey e persino dopo che il consumatore ha acquistato il
prodotto.
Purchase:
il momento dell’acquisto rappresenta il conseguimento di un obiettivo
fondamentale per l’impresa, ma non la fase conclusiva del processo di
convincimento del cliente.
Post-purchase
experience: il cliente, dopo aver comprato il prodotto, verifica se le sue
aspettative sono state soddisfatte sulla base dell’esperienza d’uso e di
consumo e orienta in questo modo le decisioni successive di acquisto. Quando il
cliente è soddisfatto si genera il cosiddetto loyalty loop (anello della
fedeltà), ossia si attiva il circuito virtuoso dell’acquisto. Da notare che un
cliente soddisfatto non solo riacquista il prodotto nel tempo, ma è anche
propenso a diffonderne un’immagine positiva attraverso il passaparola (vedi
brand advocate).
L’evoluzione
del modello: dal funnel al journey
Il
concetto di consumer journey è stato menzionato per la prima volta in un
articolo pubblicato nel 2009 sulla prestigiosa rivista McKinsey Quarterly. Gli
autori mettono in discussione il modello del purchase funnel, tradizionalmente
impiegato per descrivere il comportamento d’acquisto del consumatore,
opponendogli un nuovo approccio, definito consumer decision journey, che, a
loro avviso, si presterebbe meglio a descrivere la complessità del percorso
decisionale del consumatore nell’era digitale e dei social network.
Prima
di Internet, l’approccio al mercato dell’impresa era incentrato su strategie di
tipo push, dettate da una logica di comunicazione tipo broadcasting, basata sul
modello one-to-many, proprio della comunicazione di massa (comunicazione
unidirezionale che si rivolge a una audience passiva). La funzione attribuita
al marketing in tale contesto era, in sostanza, quella di intercettare il
consumatore durante il processo di acquisto, attraverso i principali mezzi
pubblicitari (televisione, radio, stampa, comunicazione in-store, ecc.), al
fine di indirizzarlo verso la scelta di un prodotto specifico. Da qui,
l’elaborazione di un modello, come quello del funnel, che vede il path to
purchase come un processo lineare e monodirezionale.
Il
modello del funnel è stato superato con l’avvento delle nuove tecnologie e con
la diffusione di Internet che hanno determinato il passaggio a un nuovo
paradigma. L’aumento esponenziale dell’offerta di prodotti e servizi associato
all’evoluzione tecnologica, alla frammentazione dei media e alla conseguente
moltiplicazione dei touch point tra il consumatore e il brand ha modificato
radicalmente sia il comportamento di acquisto del consumatore sia il modo in
cui le aziende fanno business. Con l’avvento della Rete e, in particolar modo,
del Web 2.0 il consumatore non è più fruitore passivo ma attore attivo e
interattivo nel processo d’acquisto, in grado di influenzare le decisioni di
acquisto di altri consumatori.
Questo
nuovo contesto rende il path to purchase sempre meno rappresentabile come un
percorso lineare strutturato in una successione ordinata di fasi. Il processo
decisionale nell’era digitale assomiglia, invece, sempre più a un percorso
circolare in cui tutte le fasi del journey si influenzano a vicenda e
concorrono al raggiungimento del risultato finale. Ciò che conta, in
definitiva, è l’esperienza vissuta dal cliente, che si forma attraverso ogni
singolo momento della sua interazione con l’azienda.
La
customer experience, secondo una nota definizione, è “la reazione interiore e
soggettiva del cliente di fronte a qualsiasi contatto diretto o indiretto con
un’impresa” (Meyer e Schwager, 2007, Understanding customer experience, Harvard
Business Review). Più nel dettaglio, i contatti diretti sono le interazioni
dirette che avvengono nel corso dell’acquisto e dell’uso di un prodotto; i
contatti indiretti, invece, sono incontri che non avvengano in contesti
interpersonali, ma il tramite dei canali di vendita e di comunicazione attivati
dall’impresa (pubblicità sui mass media, on-line e nel punto vendita, eventi,
comunicati stampa,
ecc.),
per il passaparola di terzi (ad esempio, raccomandazioni e recensioni di altri
consumatori) o provengono da altri incontri con l’impresa o con il prodotto non
programmati dal consumatore.
ZMOT:
ZMOT:
acronimo di Zero Moment of Truth. Il momento zero della verità è quello stadio
del processo decisionale di acquisto in cui il consumatore, stimolato da un
bisogno, raccoglie informazioni in Rete e valuta se acquistare o meno un dato
prodotto, prima ancora di entrare in contatto fisico con il prodotto medesimo,
ovvero prima di recarsi in un punto vendita.
Il
concetto di ZMOT, elaborato da Google nel 2011, è stato menzionato per la prima
volta da Jim Lecinsky, autore dell’e-book intitolato Winning the Zero Moment Of
Truth, per spiegare quanto i comportamenti di consumo siano sempre più
condizionati dai media digitali in generale e dal canale mobile in particolare.
L’approccio ZMOT, infatti, viene descritto dall’autore come un’evoluzione, in
ottica mobile oriented, del modello di First Moment of Truth (FMOT) elaborato
dalla Procter & Gamble (P&G) nel 2005 per descrivere e analizzare il
path to purchase, al fine di attivare strategie utili al raggiungimento dei
consumatori.
Più
nel dettaglio, la modellizzazione del path to purchase proposta da P&G
individua due momenti chiave di interazione con il brand o prodotto (definiti
momenti di verità), nel processo decisionale del consumatore, successivi allo
stimolo all’acquisto:
–
First Moment of Truth (FMOT): il primo momento di verità è il momento in cui il
potenziale cliente entra in contatto fisico con il prodotto. Consiste in quel
lasso di tempo (dai 3 ai 7 secondi) in cui il consumatore si trova davanti allo
scaffale e decide quale prodotto comprare tra le varie alternative possibili.
–
Second Moment of Truth (SMOT): il secondo momento di verità avviene dopo
l’acquisto. Il cliente, dopo aver comprato il prodotto, verifica se le sue
aspettative sono state soddisfatte sulla base dell’esperienza d’uso e di
consumo e orienta in questo modo le decisioni successive di acquisto.
L’approccio
suggerito da Google arricchisce la modellizzazione del FMOT di una nuova fase,
lo ZMOT appunto, che anticipa il primo momento di verità: nel momento stesso in
cui il consumatore avverte un bisogno o un desiderio, comincia la ricerca di
informazioni in Rete su uno specifico prodotto e si formano così le sue
convinzioni. Lo ZMOT, dunque, muove dall’assunto che nell’era digitale e dei
social network il consumatore si informa online e decide cosa comprare ancor
prima di raggiungere il negozio. Ciò senza negare l’importanza degli altri due
momenti chiave del percorso decisionale d’acquisto. Il momento zero della
verità, che si inserisce tra lo stimolo e il primo momento di verità, è
strettamente connesso anche al secondo momento di verità: il cliente è oggi
sempre più propenso a condividere le proprie esperienze di acquisto e di
consumo attraverso recensioni, rating, feedback, commenti e post pubblicati sui
social network. L’esperienza post-acquisto di un utente relativa a un dato
prodotto, pertanto, può facilmente diventare lo ZMOT di altri utenti che
cercano informazioni in Rete su quel determinato prodotto.
CROSS-SELLING:
Cross
selling: strategia di vendita consistente nel proporre al cliente che ha già
acquistato un particolare prodotto o servizio anche l’acquisto di altri
prodotti o servizi complementari.
La
finalità di una strategia di cross selling è quella di consolidare la relazione
con il cliente – che spesso acquista più prodotti nello stesso processo
d’acquisto – e di accrescerne la profittabilità, aumentando la varietà dei
prodotti o servizi acquistati dal cliente tra quelli presenti nel portafoglio
prodotti.
Per
l’impresa che, operando secondo le logiche di CRM, mira a far crescere il
valore della relazione con il cliente esistono due fondamentali strategie
commerciali riguardanti la gestione del portafoglio clienti: l’impresa può
offrire al cliente prodotti o servizi aggiuntivi rispetto a quanto già
acquistato (strategia di cross selling), oppure può proporgli versioni
superiori del prodotto o servizio (strategia di up selling, anche se sarebbe
più corretto parlare di upgrading).
UP-SELLING:
Up-selling:
tecnica di vendita con la quale si incentiva il cliente all’acquisto di una quantità
di prodotto maggiore rispetto a quanto inizialmente richiesto: ad esempio, uno
sconto per l’acquisto di un più grande flacone di detersivo. Il fine di una
strategia di up-selling è chiaramente quello di accrescere la profittabilità
del cliente aumentando la sua quota di acquisti sulla categoria.
Il
termine up selling viene usato anche per indicare la pratica con la quale il
venditore consiglia al cliente l’acquisto di un prodotto di maggior valore
rispetto a quanto già acquistato: ad esempio, uno sconto per l’acquisto di una
versione più recente di smartphone.
Up-selling
e cross-selling sono strategie di marketing molte diffuse fra le imprese che
operano secondo le logiche di Customer Relationship Management (CRM).
Tipicamente, si ricorre all’analisi del portafoglio clienti non soltanto per
individuare i clienti più strategici per l’impresa, ma anche per identificare
profili e modelli ricorrenti nell’acquisto di prodotti, così da sviluppare con
maggiore efficacia azioni di cross-selling o up-selling.
TRADE MARKETING:
Trade
marketing: insieme delle attività di marketing rivolte al trade, ossia agli
intermediari commerciali (distributori, grossisti, dettaglianti). Attraverso
tali attività, le imprese incoraggiano le aziende della Grande Distribuzione
Organizzata (GDO) ad inserire i propri prodotti in assortimento e a promuoverne
le vendite presso i clienti finali; si parla, a tal proposito, della c.d.
strategia di sell in.
Spesso
nelle imprese è presente una funzione organizzativa specifica, responsabile della
gestione e del controllo di tali attività. Ad essa spetta il compito di
decidere quali leve promozionali attivare nei riguardi dei canali di
distribuzione (vedi approfondimento più in basso sulla trade promotion).
È
riconducibile al trade marketing, in particolare, l’attività di negoziazione
con il distributore per l’inserimento in assortimento di nuovi prodotti e per
il loro posizionamento a scaffale. Le imprese della GDO, infatti, spesso
richiedono al produttore un fee di accesso (listing fees) per inserire in
assortimento nuovi prodotti e/o contributi promozionali per i prodotti già
presenti in assortimento; in molti casi viene riconosciuto alla grande
distribuzione anche un compenso aggiuntivo per l’esposizione preferenziale di
determinati prodotti. Queste spese che vengono sostenute dal produttore sono
comunemente dette trade spending e comprendono i costi sostenuti per
predisporre gli strumenti di comunicazione usati nel punto vendita per
promuovere il prodotto o per facilitare i venditori nella sua presentazione
(campioni, depliant, brochure, ecc.); includono anche le spese effettuate per
le attività di promozione e merchandising sul punto vendita (espositori,
pannelli promozionali, allestimento di spazi dedicati, acquisto di pubblicità
locale, ecc.).
Trade
promotion
Le
imprese utilizzano diverse leve promozionali per assicurarsi la cooperazione
delle aziende di distribuzione, dato il grosso potere che esse hanno acquisito
nel rapporto con il mercato (vedi GDO per
approfondimenti).
Si parla, in tal caso, di promozioni push, tendenti cioè a “spingere” il
prodotto verso i rivenditori, per distinguerle da quelle pull, miranti invece a
“tirar fuori” il prodotto dal punto vendita tramite l’acquisto.
I
principali obiettivi che un’azione di trade promotion può perseguire sono:
ottenere un adeguato spazio espositivo per i nuovi prodotti o dare maggiore
visibilità a quelli già presenti nei punti vendita; ottenere una migliore
rotazione degli stock per impedire rotture di stock nel ciclo ordine-consegna,
ovvero la mancanza del prodotto nel punto vendita; incoraggiare i rivenditori
ad acquistare quantità maggiori dei prodotti abituali o a provare nuovi
prodotti. A tal fine, i produttori possono concedere al trade uno sconto
d’acquisto, ossia uno sconto limitato per ogni unità ordinata in un certo
periodo, oppure premi e altri incentivi ottenibili al raggiungimento di
prefissati obiettivi, in genere, espressi in termini di volumi di fatturato.
Possono poi essere offerti contributi in pubblicità a quei rivenditori che
hanno svolto azioni pubblicitarie nei confronti di determinati prodotti.
GDO:
GDO
(Grande Distribuzione Organizzata). Insieme di punti vendita gestiti a libero
servizio, organizzati su grandi superfici e, generalmente aderenti ad
un’organizzazione o a un gruppo che gestisce una serie di punti vendita
contrassegnati da una o più insegne commerciali comuni (la c.d. catena
distributiva).
Anche
nota come moderna distribuzione, la GDO comprende sia le catene di punti
vendita caratterizzati dalla gestione unitaria e dall’appartenenza a una
medesima proprietà (la c.d. Grande Distribuzione o GD), sia le catene di
distribuzione che si costituiscono grazie ad accordi di associazione tra
commercianti, come consorzi e cooperative di consumo (la c.d. Distribuzione Organizzata
o DO).
Nella
grande distribuzione prevalgono le spinte economicistiche e, dunque, la ricerca
costante di economie di scala che porta alla standardizzazione di molti aspetti
operativi e strutturali dei punti vendita e all’apertura di punti vendita di
sempre maggiori dimensioni; nel contesto italiano, tra le principali catene
distributive appartenenti al mondo della GD vi sono Carrefour e Esselunga.
Nella distribuzione organizzata prevalgono, invece, le spinte solidaristiche:
tra le forme tipiche troviamo i Gruppi d’Acquisto, una forma di associazionismo
tra dettaglianti, e le Unione Volontarie, che implicano la cooperazione tra
grossisti e dettaglianti; costituiscono tipici esempi di DO Coop Italia e
Conad.
Il
rapporto tra Industria e Distribuzione
La
distribuzione moderna ha avuto un notevole sviluppo in Italia da quando è nata
negli anni Sessanta con l’obiettivo di eliminare un ricarico nel canale
distributivo. Tale sviluppo è avvenuto a scapito della distribuzione
tradizionale, nella quale si è registrata una progressiva riduzione dei consumi
(in termini di volume) nel tempo; molti dei tradizionali esercizi commerciali
di vicinato, infatti, hanno ceduto la propria licenza alle catene distributive
o si sono essi stessi trasformati in punti vendita della GDO, modificando il
format distributivo, la formula organizzativa e i criteri gestionali. Fino a
che la rete distributiva era prevalentemente costituita da piccole imprese a
conduzione familiare, tra produzione e distribuzione non esisteva nessun problema
di rapporto, anche perché il potere contrattuale era in mano all’industria.
Tuttavia, con la crescente concentrazione nel tempo del settore distributivo e
il conseguente rafforzamento del potere di mercato delle principali catene
distributive, questa situazione muta radicalmente generando uno sbilanciamento
del potere contrattuale a favore della GDO nella fase di acquisto dei prodotti.
Tale squilibrio si estrinsecherebbe, secondo quanto riportato dall’indagine
conoscitiva condotta nel 2010 sulla GDO dall’AGCM, nella frequente imposizione,
da parte della grande distribuzione, di condizioni contrattuali ritenute “non
eque” dai produttori. Tali condizioni non si esaurirebbero nella definizione
del prezzo di acquisto del prodotto e degli sconti di natura commerciale, ma
comprenderebbero anche la richiesta di
ingenti
importi da versare alle imprese della GDO a titolo di remunerazione dei servizi
di distribuzione (listing fees, contributi promozionali, compensi per
esposizione preferenziale, per servizi di centrale, ecc.), tutti
complessivamente indicati con il termine trade spending.
Tipologie
di punti vendita della GDO
Gli
esercizi commerciali che ne fanno parte vengono suddivisi in quattro tipologie
di formati che si differenziano tra loro per dimensione, ampiezza (numero di
prodotti) e profondità (numero di referenze per ogni prodotto): supermercati
(superficie di vendita superiore ai 400 mq), ipermercati (superficie superiore
ai 2500 mq), libero servizio (superficie compresa tra i 200 e i 400 mq) e discount
(superficie compresa tra i 200 e i 1000 mq, ma limitatissima gamma di
prodotti).
TONE OF VOICE (TOV):
Tone
of voice: letteralmente, è il “tono di voce” che si vuole dare alla
comunicazione, in armonia con l’identità di marca; definisce il carattere e la
personalità che si vogliono costruire per un prodotto o un brand.
Il
tone of voice può essere inteso come quella particolare modalità di
presentazione dei vantaggi offerti dal prodotto e dei relativi argomenti che
viene identificata come coerente rispetto al prodotto da comunicare: il tono di
voce può essere, ad esempio, spiritoso o ironico per uno snack, sensuale o
trasgressivo per un profumo, ecc.
Elemento
imprescindibile di una copy strategy, dove il tone of voice definisce lo
spirito di una campagna pubblicitaria ed è dunque applicabile a tutta la
comunicazione pubblicitaria, al di là dei mezzi su cui essa viene veicolata,
inclusi i segni utilizzati nei messaggi: il lay-out, il format, il claim, il
visual, ecc.
Gli
altri elementi caratterizzanti una strategia di comunicazione sono il benefit,
la reason why, il target ecc. Si rimanda alla voce copy strategy per
approfondimenti.
SPERO
DI ESSERTI STATO UTILE
SIMONE
TROLLI – MARKETING & CO.
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